Giacinto Urso: 95 anni e la “nostalgia del futuro”: «La politica? Una montagna di problemi e risolutori scarsamente attrezzati»

Giacinto Urso: 95 anni e la “nostalgia del futuro”: «La politica? Una montagna di problemi e risolutori scarsamente attrezzati»
di Adelmo GAETANI
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Venerdì 12 Giugno 2020, 13:58 - Ultimo aggiornamento: 18:22
Auguri onorevole. Come va?
«Beh, potrei dire che mi diverto ad invecchiare se non fosse che viviamo momenti difficili, anzi drammatici. Aggiungo che nei cento giorni di lockdown sono invecchiato più dei precedenti 94 anni della mia vita».
Giacinto Urso taglia il traguardo del suo 95esimo compleanno, ma più che festeggiare, sente sulle sue spalle il peso di una situazione carica di incognite. Non può essere diversamente per un uomo guidato dal magistero di Aldo Moro. Dirigente Dc, sindaco e amministratore della sua amata Nociglia dal 1952 al 1992, parlamentare dal 1963 al 1983, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, presidente della Provincia di Lecce dal 1985 al 1990 e poi Difensore civico. Un impegno politico segnato da profondo rigore istituzionale e da uno spirito di servizio che ancora oggi fanno di lui un indiscusso punto di riferimento morale.

L'emergenza coronavirus come una punizione?
«Sì, un'esperienza terribile che non immaginavo potessi vivere. Nella clausura ho cercato di curare alla meglio l'ozio che stanca, ma in realtà mi sono costantemente interrogato su che cosa può accadere dopo».

Quale risposta si è data?
«Ho pensato che di fronte ad eventi che scuotono le nostre certezze quasi sempre diciamo che nulla sarà come prima. È successo dopo la barbara uccisione di Moro, quando nulla è stato più come prima semplicemente perché è stato peggio di prima».

Che cosa dobbiamo aspettarci?
«Non mi pronuncio su quanto può avvenire, posso solo segnalare il malessere e le inquietudini che logorano il nostro Paese ad ogni livello».

Pessimista?
«Non proprio. Diciamo pessimista attivo, alla ricerca dell'ottimismo. So che non è cosa agevole, ma ci provo, anche se la ragione mi genera infiniti dubbi».

L'emergenza sanitaria è diventata emergenza economica, ce la farà l'Italia?
«Ci troviamo di fronte ad una montagna di problemi, tutti gravi, e disponiamo di risolutori scarsamente attrezzati. È difficile avere fiducia, pensando che il Paese è stato investito dal ciclone-Covid mentre già soffriva una crisi economica da oltre dieci anni. Eravamo fanalino di coda d'Europa in tutti gli indici, ora la situazione politica vuole che il nostro futuro sia affidato ad una classe dirigente più scadente rispetto a prima. È il lascito del voto del 4 marzo 2018».

Difficile cambiare?
«Siamo nel pantano di una situazione politica fluida, basti pensare al premier Conte che prima guidava una coalizione gialloverde e ora ne guida uno di segno opposto, la giallorossa. Se il problema è sopravvivere e vivacchiare può andar bene anche il trasformismo, ma altro è avere la consapevolezza e la forza di un governo autorevole in grado di rispondere programmaticamente a quello che il domani pretende dopo il virus. Oggi occorrerebbe innanzitutto rinverdire valori che sono vilipesi: democrazia, politica, Costituzione, senso patrio e bene comune. Ma c'è di più».

In che senso?
«Vede, il nostro è un Paese molto deteriorato anche e soprattutto sul piano istituzionale. Non si può cambiare governo, non si può fare un rimpasto, non si può andare a votare perché con l'emergenza non possiamo affrontare una crisi, nonostante l'attuale maggioranza parlamentare non risponde più allo stato d'animo della maggioranza degli elettori. Viviamo in una situazione eccezionale che non consente di toccare il guidatore o almeno di avvertirlo che si rischia di andare fuori rotta. Problemi centrali come il funzionamento delle istituzioni, l'economia, la sanità, la giustizia, la scuola vengono affrontati in modo frammentario e improvvisato. Manca una visione d'insieme, non c'è la progettualità che può imprimere una scossa ad un Paese inchiodato. Siamo malmessi e il Mezzogiorno ancora una volta finirà con il pagare il prezzo più alto. Basti pensare alla crisi che ha investito il turismo, attività diventata strategica sul piano socio-economico per le regioni meridionali, alla quale è riservata un'attenzione inadeguata».

Turismo vuol dire anche Salento.
«Certo, e c'è da ricordare che rischiamo di subire danni non facili da riparare. Dall'exploit del movimento turistico erano arrivati segnali di riscatto per il nostro territorio. Ora potrebbe fermarsi tutto, anche perché il Coronavirus è arrivato dopo il disastro della Xylella che, nella sottovalutazione delle Istituzioni, ha sfregiato il paesaggio rendendo meno attrattivo il nostro ambiente. Un danno che chissà quando e come si potrà riparare».

Si è sempre battuto per affermare l'idea del Grande Salento? È un tema ancora attuale?
«Dovrebbe esserlo, soprattutto ora. Le province Brindisi, Lecce e Taranto devono trovare la compattezza per rilanciare un protagonismo necessario alla crescita dei territori. Occorre ritrovare un'operatività compatta, anche attraverso la mobilitazione delle forze sociali e dei corpi intermedi, non per soppiantare la Regione Puglia, ma per realizzare un'entità che faccia sentire la sua voce all'interno dell'Ente regionale. In questo senso riprendo il vecchio sogno di Ennio Bonea il quale parlava di una Sub-regione Salento».

Perché il Grande Salento non decolla?
«Le ragioni sono diverse, tra queste un malinteso senso di campanilismo che finisce con il danneggiare chi lo pratica e chi a turno lo subisce. Ma alcune responsabilità particolari meritano di essere ricordate, come quelle dell'Università di Lecce che si è rinominata Università del Salento senza dimostrare la volontà o capacità di costruire l'intelaiatura necessaria per far decollare il grande progetto-pilota di un ateneo presente sulle tre province. Non credo che sia possibile recuperare l'occasione perduta, soprattutto con Taranto che oramai ruota nell'orbita di Bari».

Lei è considerato un punto di riferimento per molti e in tanti, uomini e donne delle Istituzioni, della politica, della cultura, la chiamano o la vengono a trovare. Perché e che cosa le chiedono?
«Credo che ci sia una nostalgia dei tempi andati, perché accade spesso che si rimpianga il passato. Personalmente a 95 anni ho molta nostalgia del futuro, ma su questo fronte trovo molta svogliatezza o improvvisazione e vedo poi un profondo scollamento tra le persone. È una considerazione che non riguarda solo il Salento o la Puglia. In generale, vedo il Mezzogiorno privo di una capacità progettuale e mi adombro, perché è la terra dove vivono gli eredi di quel meridionalismo colto e incisivo che tanto ha fatto per migliorare le nostre condizioni di vita. Ora abbiamo una questione meridionale sostanzialmente archiviata e una questione dei meridionali, come ha scritto Claudio Scamardella, che riflette l'inerzia con la quale (non) rispondiamo alle sollecitazioni sociali e civili che a volte non mancano. Così la nostalgia può diventare una sorta di medicinale sbagliato che aggrava la malattia».

Onorevole Urso, come immagina il suo futuro?
«A 95 anni ho solamente da compiere il tragitto che Dio vorrà. Intanto resta forte la voglia di pensare, di scrivere e di confrontarmi con gli altri. Leggevo qualche tempo fa un breve pensiero di don Tonino Bello, che curiosamente veniva considerato un vescovo antipolitico, mentre aveva il culto della politica. Diceva: noi nasciamo vecchi, bisogna cercare di morire giovani; e ancora: dobbiamo vivere nel presente come uomini venuti dall'avvenire. Io mi sento ben rappresentato e fortificato da queste parole che mi fanno avere fiducia nel domani, allontanando da me la naturale e umana paura del buio».
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