Le donne tra maternità e lavoro: «In troppe si fermano»

Le donne tra maternità e lavoro: «In troppe si fermano»
di Paola ANCORA
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Domenica 8 Maggio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 09:03

Poco meno di 250mila euro - dal nido al dottorato - per istruire e formare la cittadine italiane e pugliesi che scommettono su un impiego ad alto valore aggiunto. Una parte delle quali, poi - secondo l’ultimo rapporto Ocse “Education at a glance” - resta esclusa dal mondo del lavoro quando sceglie di diventare madre. Il costo sociale ed economico delle mancate politiche di conciliazione fra famiglia e lavoro è intuibile per chiunque: svariati miliardi di euro investiti senza un ritorno in termini di crescita, di ricerca, di progresso e - da ultimo, ma non per importanza - di felicità delle donne del Mezzogiorno e della Puglia, che oggi, Festa della Mamma, saranno celebrate ovunque per essere dimenticate già domani. Soprattutto al Sud, dove le percentuali di occupazione femminile restano risibili (il 33% secondo Confcommercio), lavorare quando si ha famiglia è un’impresa difficile e gravosa. 

LA DOCENTE


Anna Maria Candela, docente universitaria di Matematica e pro rettrice dell’Ateneo barese, ha coordinato il gruppo di studio che ha curato l’agenda di genere della più grande università pugliese. «Ho un solo figlio – racconta -, non ce l’avremmo fatta ad averne un altro». Candela è diventata ricercatrice a tempo indeterminato quando aveva 25 anni: «Ero molto giovane e mi sono permessa il “lusso” di aspettare qualche anno prima di avere un bambino, investendo così nella mia carriera. Adesso – spiega – i dati raccolti confermano che non si riesce più a diventare ricercatori prima dei 40 anni. Significa che una donna che ha scelto di costruire una famiglia ha dovuto rallentare il suo percorso di ricerca e, per età, si è trovata svantaggiata al momento del concorso. L’accesso a un lavoro stabile spostato tanto in avanti penalizza fortemente il mondo femminile». 

LA SINDACALISTA


E se nel mondo accademico e della ricerca il quadro è tutt’altro che roseo, mettere a fuoco il problema della conciliazione nel mondo del commercio e dei call center – tanto per citare due dei settori dove più alta è la percentuale di occupazione femminile – significa svelare le false promesse della politica e del mondo dell’impresa, con le dovute eccezioni. «Nel Salento - dice Daniela Campobasso, segretaria aggiunta della Filcams Cgil Lecce con un passato da sindacalista nell’industria – in 26 anni di carriera ho visto uno o due casi di reale impegno imprenditoriale nella conciliazione famiglia-lavoro». Uno di questi è l’azienda tessile del lusso Barbetta, «che riconosce alle proprie lavoratrici una contrattazione integrativa e migliorativa, un vero sistema di welfare aziendale». Mosche bianche. «Ora stiamo provando a costruire un percorso simile con la partecipata della Provincia, la Salento Energia, ma c’è tanta strada da fare». E nell’estremo tacco d’Italia non manca «chi ha preso gli incentivi per assumere donne, salvo poi – prosegue Campobasso – scaricare interamente sulle spalle delle dipendenti l’onere di tenere insieme la responsabilità di essere madri con quella di assolvere al proprio compito professionale». 
Per il sindacato, che solo nel Salento conta 3.500 iscritti, due sono le criticità da aggredire. La prima, oggettiva, attiene a ciò che manca per far sì che la conciliazione sia reale e non resti solo uno dei buoni propositi enunciati nel Codice nazionale per le Pari opportunità e nella legge regionale, di recente approvazione, sulla parità retributiva. «Serve una infrastrutturazione sociale a sostegno delle famiglie e delle madri in particolare. Guardiamo con molto interesse agli sviluppi del Piano nazionale di ripresa e resilienza – aggiunge la sindacalista - che si deve concentrare su bisogni reali. Investire negli spazi di aggregazione deve tradursi in servizi qualificati, a partire dagli asili, che garantiscano ai genitori di poter andare al lavoro tranquilli». Ancora. «Bisogna intervenire sulla flessibilità spinta dell’orario di lavoro richiesta a tante, troppe categorie: comprime il tempo canonicamente dedicato alla famiglia. Moltissime donne chiedono il part time anche per questo e alla fine guadagnano meno». 
La seconda criticità andrà superata con il tempo: «Esiste un grande steccato culturale, al Sud più accentuato – chiude Campobasso – che affida alle sole donne la responsabilità di cura.

Con la pandemia tantissime iscritte hanno dovuto abbandonare il lavoro». Non è un caso che anche la professoressa Candela punti il dito sulla necessità di una «maggiore e più diffusa sensibilità sociale e culturale, che gradualmente faccia sedimentare l’importanza di condividere i compiti di cura. Soltanto così le donne riusciranno ad avere libertà di scelta, realizzando le loro aspirazioni, quali che siano». Combattere contro gli stereotipi è un primo passo da compiere: «Capita spesso - conclude la pro rettrice - di trovarmi in contesti nei quali io sono una “dottoressa” e l’uomo accanto a me è un “professore”. Ma non ci si deve lasciare scoraggiare dalle difficoltà: dobbiamo lavorare e competere per noi stesse e a beneficio della comunità intera». L’esempio e la lotta come unica via.

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