Case popolari occupate dalle famiglie dei clan: la prefettura dice sì al primo sgombero con polizia e carabinieri

Case popolari occupate dalle famiglie dei clan: la prefettura dice sì al primo sgombero con polizia e carabinieri
di Paola ANCORA
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Giovedì 30 Maggio 2019, 18:00 - Ultimo aggiornamento: 31 Maggio, 09:12

Scorrendo la mappa delle occupazioni di cui Quotidiano ha dato notizia nel marzo del 2018, quella di oggi potrebbe essere definita una giornata storica per la legalità. Questa mattina, infatti, le forze dell'ordine - polizia, carabinieri e vigili urbani - hanno eseguito lo sgombero di un alloggio popolare occupato, la cui esecuzione pendeva ormai da due anni senza che nulla accadesse. In quella casa di proprietà di Arca Sud, al civico 5 di via Verona, abitavano la moglie e un nipote maggiorenne di Antonio Sileno, oggi detenuto nel carcere di San Gimignano e già noto alla cronaca leccese per fatti risalenti al 2012. 

Quell'anno, i carabinieri del comando provinciale di Lecce - affiancati dai militari di altre dieci compagnie di tutta Italia - portarono a termine 34 arresti, decapitando una associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga. Un'associazione ramificata e con una gerarchia precisa come quella di una multinazionale, che operava fra Lecce e il Sud Salento, con ramificazioni in tutta la Puglia, fino alla Campania e  con quartier generale a Monteroni. Ed è proprio al clan Tornese, che in quel territorio ha sempre avuto la sua piazza, che avrebbero fatto riferimento alcuni degli arrestati in quel blitz, denominato non a caso "Valle della Cupa".

L'associazione, secondo i rilievi degli investigatori, aveva come leader proprio Antonio Sileno, oggi 58enne, che nel 2012 aveva già scontato una pena per omicidio ed era già stato condannato a sette anni, con una sentenza non definitiva, nell'ambito dell'operazione "Affinity" del 2011, per reati relativi sempre al traffico di stupefacenti.

Nel blitz "Valle della Cupa" fu coinvolta anche la compagna di Sileno, A.C., cioè la donna che questa mattina è stata fatta sgomberare dall'alloggio occupato di via Verona e che, dalle carte, risulta peraltro assegnataria regolare di un alloggio di proprietà del Comune in via Terni, come hanno certificato i Servizi sociali del Comune intervenuti sul posto, questa mattina, insieme a polizia, vigili e carabinieri. La porta della casa di via Verona è stata sostituita da un'altra, blindata, e si dovrà ora aspettare lo scorrimento della graduatoria definitiva pubblicata da Palazzo Carafa poche settimane fa perché venga assegnata a una nuova famiglia. 

Ma perché il Comune, a suo tempo, ha assegnato un alloggio a una occupante abusiva? E come è possibile che gli occupanti, oggi, debbano semplicemente "trasferirsi" nella casa di via Terni, senza alcun provvedimento di decadimento? La legge regionale - va infatti ricordato - stabilisce che chi occupa perde per sempre il diritto ad avere una casa popolare. Ancora. Perché si è atteso due anni e mezzo per procedere allo sgombero?

Domande alle quali la linea tracciata oggi dal prefetto Maria Teresa Cucinotta - in perfetta concordanza con quella tracciata dal suo predecessore, Claudio Palomba -, con l'autorizzazione all'utilizzo della forza pubblica per riportare lo Stato dove lo Stato, fino a oggi, ha fatto sentire la sua mancanza, potrebbe fornire presto risposta. Scrivendo la parola fine a diversi lustri di illegalità che hanno scavato buchi nei bilanci degli enti pubblici e tolto, ai più bisognosi, il diritto di ottenere un tetto sulla testa. «Noi - specifica il direttore di Arca Sud, Sandra Zappatore, contattata da Quotidiano - siamo pronti ad andare avanti».

Nel frattempo, l'avvocato Ivan Feola, che rappresenta il 18enne che abitava nella casa di via Verona insieme ad A.C., fa sapere che il ragazzo ha presentato nell'ottobre 2017 domanda di sanatoria (la legge regionale, infatti, non stabilisce alcun termine per chiedere la sanatoria, ndr), domanda ancora sub iudice, «nonostante i Servizi sociali, che conoscono la famiglia, possano tranquillamente constatare e affermare lo stato di disagio in cui versa.

Penso che a questo ragazzo tocchi almeno una risposta, un sì o un no. E, nelle more, non lo si può cacciare con la forza». 

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