Pasolini, 100 anni fa nasceva il genio ribelle

Pasolini, 100 anni fa nasceva il genio ribelle
di Anita PRETI
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Sabato 5 Marzo 2022, 05:00

Quando all’alba la notizia cominciò a circolare, quando a mezzogiorno fu chiara, o così sembrò, nei suoi dettagli oscuri, in quel giorno di novembre del 1975, il giorno dei Defunti, tutti gli intellettuali italiani, o quasi tutti, rimasero senza fiato. Qualcuno pianse. Si spegneva la vita di uno di loro, per giunta un poeta. Questa categoria di sognatori fiorisce nel mondo con giudizio, non frequentemente, talvolta a primavera o alle sue porte, come oggi 5 marzo, ma un secolo fa. Il campo dove fiorire, per Pier Paolo Pasolini, fu quello delle primule, il cielo quello dei temporali, il luogo Casarsa, nel pietroso Friuli. Quella “specie de cadavere lunghissimo”, come lo definisce uno dei migliori attori italiani, Fabrizio Gifuni, nel suo monologo (e memoriale) dedicato a Ppp, scompariva dalla terra a un anno esatto di distanza dalla sua indimenticabile profezia. Resa nota con uno scritto sul Corriere della Sera in un altro primissimo giorno del mese, era un altro novembre: “io so i nomi…”, i nomi di tutti coloro che seminavano dolore e morte nell’Italia della guerra civile che nessuno osava definire tale, i corpi ancora caldi, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno. E il suo adesso era freddo. Lì pronto per una pietà michelangiolesca tra le braccia della madre Susanna, colei che l’aveva spinto a scrivere versi, partorendolo di nuovo al mondo come poeta. Come non pensare dinanzi a quel corpo straziato che era stato anche lui bambino. Susanna, nella gioia familiare di quel 1922, lo aveva fatto fotografare pacioccone a sei mesi e nudo disteso sulla coperta come da tradizione per i neonati dell’epoca. Per i quali il destino, in quell’amaro 1922 (Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti) sarebbe stato tracciato a ottobre dalla Marcia su Roma del cavaliere Benito Mussolini e della sua schiera. Giuravano quei ragazzi: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario con il mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”. E lui invece, anche se costretto al fez del Balilla (che aria seria, in un’altra fotografia) e poi alla divisa da combattimento (quello che gli aveva portato via l’amato e unico fratello Guido, l’Ermes partigiano), aveva prestato giuramento a una sola parola: libertà. A ogni costo, anche contro la morale di quel tempo.

Ora, lontanissimi quei giorni, Pier Paolo non è più quel bambino elegante nell’abitino della festa e con le scarpe alla bebè (Susanna continua a farlo fotografare), non è il giovinetto in gita, ma un giovane uomo, molto bello, che scrive poesie destinate a essere famose e coltiva la passione per il football (ora lo si può dire, senza l’antianglofilo Mussolini), il gioco del pallone dove i corpi si lanciano, si sfiorano, si perdono, si ritrovano. E adesso, nel 1957, Pasolini ha 35 anni e, passando per non pochi guai che la fame di libertà gli procura (cominciando a scavare i solchi “eduardiani” del suo volto) e trasferitosi con Susanna a Roma, si è fatto conoscere come narratore: ha scritto “Ragazzi di vita” e un editore illuminato come Livio Garzanti gliel’ha pubblicato sfidando i benpensanti e persino la Magistratura sul terreno della parola oscenità.

Corre l'anno 1959. E Pasolini racconta l'Italia percorrendola in auto

Come i suoi ragazzi, Ppp è affamato di vita e, per cercarla, anche fuori da quella Roma sdrucita che tanto lo affascina e che ha reso eterna nelle pagine del suo libro, si mette alla guida della sua auto, la 1100 Fiat, un’antenata della “berlina”, e parte alla scoperta dell’Italia “circumnavigandola” da terra.
È il 1959. Quel che si sapeva, in una veloce sociologia letteraria, era quanto aveva appena scritto Piovene ne “Il viaggio in Italia”. Quel che Ppp fa e quel che vede (quasi una prova generale per il futuro documentario “Comizi d’amore”) è raccolto ne “La lunga strada bianca” (l’Autostrada del sole era allo “statu nascenti”). Un libro che ha conosciuto negli anni più edizioni: dal parmense Guanda al salentino Kurumuny per il segmento territoriale del percorso (Pier Paolo Pasolini – “Il viaggio jonico”, Calimera 2017). Un libro che arriva come un dono più che un suggerimento dalla biblioteca del nostro indimenticabile e sapiente redattore capo, Renato Moro, involontariamente dispettoso nel lasciarci prima del tempo ma presente in ogni riga e in ogni pagina e in ogni ora del giornale.
La lunga strada bianca” squaderna la bellezza di Taranto dinanzi agli occhi di Ppp. Taranto gli sorride come una baldracca. Del resto Laura Trombetti, in arte Laura Betti, la sua più cara amica non canta forse quelle ambigue strofe di Alberto Arbasino? “Ossigenarsi a Taranto/è stato il primo errore/ l’ho fatto per amore/ di un incrociatore…” (“Seguendo la flotta”, di Arbasino e Carpi).

"Taranto, città perfetta"

Ppp arriva nel Salento da Sud, guarda e riferisce. “L’Ionio non è un mare nostro: spaventa… soffia sul mare un vento che rischia di far ribaltare la macchina”. Lungo il cammino, vede donne che sembrano quelle dei banditi e giovani nel cui sorriso “c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia”. Ed eccola nell’ormai celebre descrizione: “Taranto città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari e i lungomari”. All’orizzonte le “navi da guerra, inglesi, italiane, americane”. Gli anziani ricordano ancora questo profilo dell’orizzonte e l’arrivo della Forrestal, la colossale portaerei Usa, era un momento di festa per tutti. Ma, nella musica del tempo di pace, le navi da guerra stonano: non c’è più molto lavoro nei cantieri, in Arsenale, e allora bisogna pregare in un futuro d’acciaio.

Ma mentre si creano le basi per la nuova industrializzazione certi gesti inchiodano i tarantini al passato: sulla riva “aggrappati agli splendidi scogli” ci sono gli stabilimenti balneari, i “camerini, come qui si chiamano le cabine, sulle palafitte traballanti aperte a tutti i venti”. Dall’alto, dal Lungomare maggiore, appollaiati sulla ringhiera (“in pezzi”, il dopoguerra è lampante nei segni) i maschi guardano “il bagno delle donne”.

Il concetto di pudore è variabile tra Pasolini e i tarantini. Le donne, viste dall’alto, sono come “piccoline nere, come vermetti ma già un po’ gonfie di anche” mentre gli uomini “stretti di anche”, sono “svelti… un’elica gli gira dentro, l’elica del sesso, della curiosità, della voglia di esistere”. Ppp coglie subito una caratteristica invalidante della tarentinità: “sei un dio perché sei forestiero”, ma se ti fermi qualche giorno non sei nessuno. E lui se ne va; tornerà da queste parti sette anni dopo, ormai più che famoso, per cercare terra più simile a quella del suo Cristo (sta girando a MateraIl Vangelo secondo Matteo”) anche tra le gravine di Ginosa e Massafra. 
Ma è ancora presto per il set, il viaggio deve proseguire e “la strada bianca” si allunga verso Leuca, con i “suoi villini liberty”. Prima incontra Gallipoli: “Perfetta anch’essa… biancheggiante in un mare squisito, puro, selvaggio”. Dopo molti e molti anni, per un’altra occasione, incontrerà Lecce. E sarà l’ultimo abbraccio con il Salento. Pochi giorni prima della fine. Ma per un poeta di quella grandezza e per quelli come lui, anche se non son poeti, non arriva mai l’ultimo giorno. E’ solo il primo dei tanti in cui si continua a camminare insieme.

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