Da Bowie a De Andrè, l’anima segreta delle star negli scatti di Harari

Uno scatto che ritrae Bruce Springsteen
Uno scatto che ritrae Bruce Springsteen
di Vincenzo MARUCCIO
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Venerdì 16 Dicembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 03:58

Avremmo voluto essere al suo posto. Una, dieci, mille volte. Trovarci davanti all’idolo che ci ha cambiato la vita e, dopo avergli chiesto un autografo, scattare una foto. Scattare e scattare ancora. Per rivivere, in quell’istante, sogni, speranze e illusioni. Sentirsi giovani per sempre.
Avremmo voluto essere Guido Harari. Per immortalare le risposte nel vento di Bob Dylan, la luce negli occhi David Bowie, lo sguardo spiritato di Vasco Rossi, l’anima fragile di Fabrizio De Andrè, la California on the road di Gianna Nannini. Copertine di dischi e centinaia di ritratti che hanno dato luce al nostro immaginario e che, lo avremmo saputo dopo, portavano la firma di questo piemontese giramondo capace di cogliere l’attimo. Capace di catturare ciò che non si vede. La lista è lunga, lunghissima: dagli esordi come giornalista-fotografo musicale per Ciao 2001 e Rockstar alle incursioni nei reportage fino alle monografie (veri romanzi per immagini) dedicate agli artisti più grandi. “Remain in light” l’ultima uscita, il libro-manifesto che raccoglie 50 anni di attività: una gallery che è la nostra storia molto più di quanto immaginiamo. Sempre, come recita il titolo, “rimanendo nella luce”. L’unica richiesta che, si dice, abbia mai fatto al soggetto dei ritratti. Non mettersi in posa. Mettersi in luce per svelare quello che uno nasconde dentro.

 

Harari, lei sostiene che il segreto di un ritratto è l’incontro con la persona. Ma qual è il segreto dell’incontro?

«Vivere il soggetto, famoso o meno che sia, nel momento, nel suo presente, se non addirittura accompagnarlo nel suo futuro e immaginarlo insieme a lui o a lei.

Solo così si può riuscire ad entrare nel suo cerchio magico».

Come fa a convincere musicisti e artisti a “fidarsi” di lei, spesso con le pose e le facce più strane?

«Forse riesco a far capire loro di essere lì proprio per loro, con passione e curiosità, non solo come professionista. Come dicono gli inglesi, “your vibe attracts your tribe”. Vuol dire: “Le tue vibrazioni, la tua energia, attirano i membri della tua stessa tribù”».

In tutti questi anni ha imparato a conoscerli: cosa c’è dietro un personaggio? Sono davvero fragili o è un luogo comune?

«Siamo tutti esseri umani, con virtù e difetti, vulnerabili, soprattutto se sollecitati oltre ogni misura se catapultati ai vertici della fama e del successo. Abbiamo tutti bisogno di essere rassicurati e apprezzati per quello che abbiamo da offrire. Anche le grandi rockstar».

Per i ritratti lei sceglie spesso il bianco e nero. C’è un motivo?

«Il bianco e nero è essenzialità: non ammette distrazioni, ammiccamenti o scorciatoie. E poi, concependo un libro o l’allestimento di una mostra, consente una coerenza che pone più fluidamente in dialogo le immagini». 

C’è una coppia, Lou Reed e Laurie Anderson, sulla copertina dell’ultimo libro “Remain in light”. Scelta concettuale o affettiva?

«Quella foto è rimasta nel cuore di tutti e tre. Laurie Anderson l’ha commentata ringraziandomi di aver fatto parte del loro sogno così a lungo. Dopo lockdown e distanziamenti, mi pareva simbolica di un bisogno urgente di ritrovare la nostra umanità con un gesto tutt’altro che banale: un abbraccio che significa anche inclusione e slancio vitale».

Ma è vero che i suoi ritratti si sono “addolciti” negli anni? E’ diventato più dolce lei o si è addolcita, forse troppo, la musica rock?

«La musica rock si è ossificata del tutto: ne rimangono frusti rituali quasi totalmente derivativi. Non mi sono addolcito, ma non sono neppure mai stato ruvido né ispido. Semplicemente ho posto una maggiore enfasi su quel sentimento di umanità e di connessione vera che stiamo smarrendo sempre più rapidamente».

Lei non fotografa le star del rap e della trap. È una questione anagrafica o sono personalità poco avvincenti per meritarsi una copertina?

«La mia curiosità è sempre insaziabile, ma sappiamo benissimo come certa musica sia indirizzata ad un pubblico di adolescenti, in gran parte ignari della musica che li ha preceduti. Sto per compiere 70 anni e mi appassionano musiche che parlano di coraggio e maturità, di visionarietà e al tempo stesso di sostanza».

Le donne sono sempre più protagoniste nelle sue foto e lo testimonia la mostra “Le Muse”. Perché?

«Le donne rock degli anni Sessanta erano una modesta eccezione in un business totalmente maschilista. Per fortuna la Storia ha ribaltato un destino che in altri ambiti è tutt’ora infame. Io sono cresciuto, sia anagraficamente che intellettualmente e emotivamente, con le canzoni di Joni Mitchell, Laura Nyro, Janis Joplin, Kate Bush».

È solo una motivazione musicale?

«Amo l’universo femminile, molto più complesso e affascinante rispetto a quello maschile».

La sua opera è legata a Fabrizio De Andrè: dopo tanti anni, lavorando all’edizione ampliata di “Una goccia di splendore” appena pubblicata, ha compreso qualcosa di nuovo di lui? Com’è possibile che il più antidivo sia diventato un’icona con le sue foto?

«Fabrizio era già un’icona prima che ci incontrassimo grazie alle fotografie di Cesare Monti, Mimmo Dabbrescia, Luca Greguoli, Francesco Leoni. La nuova edizione della “Goccia” ha fotografie e manoscritti in più, e molti aggiornamenti negli apparati, più un capitolo dedicato al dopo-Fabrizio e al lavoro della Fondazione De André Onlus, e un portfolio delle splendide xilografie di Stephen Alcorn. Il libro, ricavato da 50 anni di interviste, manoscritti, appunti, diari e parecchi archivi fotografici, rimane un’irresistibile cornucopia di stimoli e illuminazioni per fan vecchi e nuovi. Mi piace rileggere le cosiddette “Parole cangianti”, gli aforismi di Fabrizio, annotati su giornali, libri e bloc notes. Una fantasmagoria di humour e provocazione».

Oltre a De Andrè qual è l’incontro che le ha cambiato di più la vita?

«Tanti. Non finisce di stupirmi l’essere riuscito a frequentare e collaborare con parecchi artisti italiani e internazionali, da Pino Daniele a Claudio Baglioni, Kate Bush, Joni Mitchell, Lindsay Kemp, Lou Reed, Laurie Anderson, Peter Gabriel, Leonard Cohen, Mia Martini, Vinicio Capossela, Vasco Rossi. La lista è veramente lunga. Quello che cambia davvero la vita è sentirsi trattati alla pari da grandi miti, soprattutto da quelli con cui sei cresciuto. Li hai già avuti dentro per anni, ma d’un tratto eccoli nella tua vita in carne e ossa».

Qual è l’artista che non è mai riuscito a fotografare?

«La lista è lunga. Direi Ai WeiWei, Shirin Neshat, Lise Gerrard dei Dead Can Dance. Di recente sono riuscito a ritrarre Liliana Segre dopo tre anni, di cui due di pandemia, di telefonate e email. Dunque, c’è un tempo per ogni cosa. O non ce n’è affatto».

E quello che è stato più difficile convincere?

«Forse Tim Buckley, il padre di Jeff. Fu uno dei miei primi incontri nel lontano 1975 e non avevo ancora sviluppato certe malizie, ma la sua diffidenza durò pochi minuti. La vera difficoltà sta nel convincere il soggetto che il tempo di una fotografia dev’essere buon tempo da trascorrere insieme. Uno scambio reale di energia, di esperienza. E di gioco, soprattutto». 

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