Ferraris presenta il suo nuovo libro "Imparare a vivere"

Ferraris presenta il suo nuovo libro "Imparare a vivere"
di Claudia PRESICCE
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Mercoledì 6 Marzo 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 15:58

Quando un inciampo ci suggerisce che forse non abbiamo ancora imparato a vivere, vale la pena di tentare ancora una volta, sperando in una brezza favorevole che ci disincagli dalla secca (come diceva Valéry? “Il vento si leva!... Bisogna provare a vivere”)…”. Se il lavoro di provare a vivere è proprio il destino che ci è dato in sorte, di contro si può “imparare” a vivere? O forse, meglio dire: si può imparare a vivere meglio? Se lo è chiesto Maurizio Ferraris, docente di Filosofia teoretica all’Università di Torino, presidente del Labont (Center for Ontology) e di “Scienza Nuova”, in un libro nato proprio per una “fermata” forzata e quindi imprevista. Una spalla rotta cancella progetti, impegni e corse, diventa un freno che lo costringe a rallentare. E, per uno come lui che lavora con la filosofia, si apre un varco nuovo: lo spazio per un momento di riflessione libera e profonda sulla vita, tra parole e teorie di grandi pensatori con la capacità intellettuale di unire i puntini creando un nuovo disegno. Il libro “Imparare a vivere” (Laterza; 152 pagine; 15 euro) di Maurizio Ferraris verrà presentato oggi alle 18 a presso la Libreria Laterza di Bari. In dialogo con l’editore Alessandro Laterza.


Professore raccontiamo la genesi della riflessione nel libro? 
«Sì, è nato tutto per un inciampo che mi ha procurato una rottura della spalla. E, durante il conseguente ed imprevisto tempo libero seguito, ho riflettuto molto sulla vita, o meglio ho organizzato tanti pensieri sulla vita che negli anni avevo esaminato, scritto, studiato. È nato così un libro diverso dai miei precedenti in cui sicuramente ci sono dentro elementi filosofici, semplicemente perché per mestiere faccio il professore di filosofia, ma c’è una voglia di rapportarsi alla vita in modo inerme e sincero. Siamo tutti di fronte alla necessità di imparare a vivere, fin da piccoli quando i genitori in fondo non fanno altro che esortarci ad imparare al meglio. Ma nello stesso tempo anche da adulti siamo spesso dolorosamente consapevoli di non avere davvero imparato a vivere. Ho cercato le tappe di questo percorso che sembra davvero non risolversi mai».


E ne ha trovate quattro in cui ha diviso il libro. Le prime tappe analizzate sono “vivere” e “sopravvivere”.
«Sì, guardo il fenomeno del vivere nel suo complesso, come un fenomeno biologico, ma anche psicologico. Invece la parte dedicata al “sopravvivere” racchiude i vari tentativi che gli umani fanno di rappresentarsi un mondo in cui dopo la fine ci sia ancora qualcosa. Tante cose si fanno per cercare la sopravvivenza: la più semplice e minimale ricerca di resurrezione è, ad esempio, scrivere e pubblicare qualcosa, così anche, quando sarai morto, qualcuno potrebbe ancora leggerti. Non è una vera resurrezione, ma significa pensare di trasmettere ancora qualcosa dopo la nostra fine».


Le altre due tappe poi sono il “previvere” e il “convivere”.

«Per previvere parto dalla mia esperienza di giovane lettore. In adolescenza leggere alcuni romanzi porta avanti nel tempo, ti fa entrare in età completamente diverse dalla tua, guardi come si vive a 60 o 80anni. E da ragazzino queste età ti sembrano favolose. Quando a 14 anni leggevo la Recherche di Proust non potevo capire che cosa fosse il tempo perduto, capivo teoricamente l’idea della profondità temporale, ma i miei ricordi non andavano oltre i dieci anni prima. L’ultima tappa del mio libro è poi il convivere: non è una grande scoperta, avrei potuto impararlo prima.

Se c’è un senso vero nella vita, in quel po’ di vita che ci viene data a tutti, è proprio nell’imparare a convivere con le altre persone, imparare a stare insieme, cercare di condividere il proprio tempo con le altre persone e possibilmente farlo in amicizia».


È un dulcis in fundo questa riflessione sulla convivenza, forse la più importante. Ma quando lo capiamo forse dovremmo ricominciare daccapo tutta l’esistenza.
«Sì, sono d’accordo. Spesso ci arriviamo quando è ormai quasi finita». 


Questo libro dimostra intanto quanto può servire la cultura ad imparare a vivere. Lei ha “utilizzato” i suoi studi filosofici qui in modo concreto, li ha portati nella vita reale… 
«Non mi è mai successo di vivere in un modo e scrivere in un altro, o pensare in un altro. Quello che ho imparato studiando libri filosofici per piacere, necessità o dovere professionale, poi è filtrato all’interno della mia vita. Ma certo questo non riguarda soltanto me: tanti, filosofi e non, sono intrisi delle letture che hanno fatto. E sospetto anche che tanti che non sanno di essere influenzati dalle loro letture, invece nei fatti lo sono magari molto di più. In senso grottesco potrei dire che uno che si comporta come in un film western, vuol dire che ha assimilato e trasformato in carne e sangue quella filmografia». 


Una lezione della filosofia: tra le tante che ha incontrato quale le piace ricordare? 
«Quella di un mio amico e maestro Jacques Derrida. Due mesi prima di morire nel 2004 rilasciò un’intervista a Le Monde in cui ammetteva di essere malato terminale di cancro. Ricordò l’imperativo filosofico per eccellenza che, sin dagli Stoici a Montaigne, insegnava che imparare a vivere significa imparare a morire, cioè conciliarsi con la propria mortalità. Tuttavia, proseguiva Derrida, al di là dell’assoluta necessità di questo insegnamento, lui confessava di non essersi rassegnato a morire. Trovo questo gesto importante perché in fondo lui avrebbe potuto benissimo atteggiarsi a stoico e a dire le cose giuste da filosofo, fare retorica: ha invece mostrato la stratificazione della sua cultura, ma poi ha detto qualcosa di dissonante rispetto a quel riferimento aulico. Dire “tuttavia mi spiace molto morire, confesso di non aver imparato a morire” in quel momento è stata una lezione di onestà. Talvolta si crede che la filosofia porti la felicità o la saggezza, ma se guardo a me stesso, non ha portato nessuna delle due. Però mi ha dato una consapevolezza che senza la filosofia non avrei avuto».


Forse non sempre consapevoli vuol dire “felici”. Però la consapevolezza è libertà di scegliere, di decidere, di capire. 
«Sì, una libertà modesta, ma importante. Ci si libera da un po’ di illusioni. E questo fa bene».
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