Solidarietà e rinascita: il lavoro della comunità Emmanuel per recuperare i ragazzi dalla droga

Solidarietà e rinascita: il lavoro della comunità Emmanuel per recuperare i ragazzi dalla droga
di Alessio PIGNATELLI
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Martedì 27 Dicembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 12:22

Risucchiati dall’inferno e strappati dalla strada. Quella strada fatta di notti sull’asfalto o un po’ dove capita, di solitudine e vuoti riempiti da dosi di droga, qualsiasi essa sia. Vite tribolate e da randagi. Una caduta negli abissi e una lenta, lentissima risalita. Grazie al lavoro di professionisti che non conoscono orari o pause festive: psicoterapeuti, operatori di comunità e angeli custodi che hanno come obiettivo salvare esistenze umane e tirarle fuori dal baratro. È la storia di Aldo e tanti altri come lui. Magari meno conosciuti di quel ragazzo noto a tutti perché ti chiedeva 50 centesimi gridandoti dietro «U zi’» e che, da qualche mese a questa parte, in strada non si vede più. Non si sentono più le sue richieste e le sue grida inconfondibili perché c’è un’equipe di professionisti che sta facendo un lavoro straordinario. In silenzio, senza proclami. Perché se è così dannatamente reale quanto sosteneva il teologo de Lamennais - “il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo” - ci sono esseri umani che capovolgono stereotipi e regalano speranze ai più sfortunati. Aldo e gli altri si raccontano in un giorno come gli altri della loro nuova vita. Che, attenzione, non è ancora un traguardo raggiunto ma è un percorso in divenire. Però quei volti, quei visi, quelle mani, quei corpi, quasi non li riconosci più. Trasformati da un “prendersi cura” che era un concetto sconosciuto nella vita passata.

Il centro di accoglienza

Al centro diurno di prima di accoglienza “a bassa soglia” della Comunità Emmanuel di Taranto in via Pupino 1 nei pressi dell’Ospedale Militare i ragazzi sono in cerchio. Hanno deciso di raccontare la propria esperienza in quell’oasi di salvezza per persone con dipendenze patologiche di vario tipo: droghe, alcol e gioco. C’è di tutto. Aldo lo vedi e non capisci se è davvero lui. Ha modi gentili, ti chiede se vuoi un caffè, è ripulito da anni di abbandono e trasandatezza. Un buco nero durato trent’anni, da pochi mesi la luce. «Sono finito in rianimazione dopo l’ennesima dose - racconta - Ho sempre vissuto in mezzo a una strada: all’età di 12 anni ho iniziato a prendere eroina.

Ora voglio stare bene, ho 46 anni. Arriva il momento che ti stanchi, non ce la fai più: stavo male fisicamente, dormivo dove capitava, senza problemi. Su un marciapiede, in rifugi qua e là». La mamma lo ha sempre esortato a chiudere con quella vita. «A chiudermi da qualche parte - specifica - ma io non ce la facevo. Quella roba era più forte. Quando è morta mia mamma, ho buttato tutto all’aria: è morta tre anni fa, da allora ho iniziato a maturare quest’idea di cambiamento. Ma non è stato mica facile».

«E non lo è tuttora», interviene la psicoterapeuta Isabella D’Ambrosio. Già perché quella strada di rinascita e riscatto può nascondere insidie e scivoloni. «Queste persone vengono accolte e ognuno ha il suo percorso rispetto alla propria situazione: c’è chi è stato accompagnato dai genitori, chi è venuto dalla strada magari per farsi una doccia, chi arriva da stati di gravi patologie sanitarie. È una strada lunga e faticosa, nei primi mesi devono ristabilirsi dal punto di vista psicofisico. In questo senso devono rientrare in giornate fatte di regole, di orari, di riferimenti. Quando la persona si è “affidata”, poi si possono fare passaggi importanti anche con la famiglia. Proprio per dare un aiuto parallelo. Ci sono le prove a casa, una sorta di verifica». Quando si può dire che una persona ce l’ha fatta? Non si è mai invincibili, questa è la verità. Le fragilità non scompaiono ma le dipendenze possono essere riconosciute. La comunità dà gli strumenti per gestire queste difficoltà. «Ho voluto fare felice mia madre che non c’è più - riprende la parola Aldo - Qui ho trovato pace, tranquillità, serenità. Mi guardo allo specchio e mi chiedo se davvero sono io. Qui mi vogliono bene, mi danno consigli, mi aiutano. Durante il giorno ognuno ha il suo compito: faccio pulizie in stanza, svolgiamo attività. La sera mi metto a letto, ho riscoperto la fede: dico una preghiera. Quando rivedo alcuni luoghi di Taranto mi viene l’ansia: ricordo i posti dove fumavo, dove assumevo droghe. Vedo la gente trasformata, vedo il cambiamento».

Ma è lui che è cambiato e quegli occhi stupiti sono le specchio di una persona diversa. «E allora mi torna un po’ la malinconia e anche la paura perché non ci vuole nulla a tornare in quell’incubo» riflette a voce alta. A Natale e Santo Stefano è stato a casa della sorella. Da ieri, di nuovo in comunità.

Un lavoro silenzioso

«C’è un prima e dopo il percorso terapeutico - osserva la dottoressa Maria Anna Carelli, responsabile dell’unità operativa Cabs Emmanuel di Taranto - Le patologie vanno curate terapeuticamente ma c’è un “pre” di accoglienza, di accompagnamento, di discernimento. Svolgiamo diverse attività: laboratori, visite guidate, c’è l’assistenza primaria che poi si trasforma anche in vita quotidiana». Quella vita quotidiana che era un incubo per Pierpaolo, sessant’anni. Lui è arrivato al centro spinto da un’amica sociologa. «Ormai sono trascorsi quattro anni - racconta - ero in un momento di debolezza totale sotto tutti i punti di vista. Dal lato economico, da quello emotivo. Ero a terra. Io la strada non l’ho vissuta ma per diverse vicissitudini sono stato costretto a vivere con una mia ex che voleva la mia morte. Nonostante mi fossi già allontanato dalle droghe, avevo perso le forze per potermi riproporre alla vita». Per una vicenda assai intricata, gli arriva inaspettatamente un ordine di cattura di due anni e mezzo.

«Sono stato in carcere e lì ho ripreso le forze anche lavorando all’interno della struttura e mantenendo contatti col centro. Sono uscito a gennaio 2020 ed è iniziato poco dopo il lockdown a causa della pandemia. Ma ero fortificato, sono tornato qui: un po’ col loro aiuto, un po’ con la mia volontà, mi sono dato da fare. Ho sempre da imparare, cerco di restituire quello che ho avuto. Oggi credo di aver raggiunto un equilibrio, non sto dicendo che sono guarito ma riesco a vivere decentemente». Quel termine “decentemente” è un pugno nello stomaco. Pierpaolo lo declina più come esigenza etica collettiva che si ha l’obbligo di rispettare. «Ma nessuno può giudicare le vite altrui» si sente ancora in quel cerchio magico. E viene in mente un passaggio di un brano di chi ha cantato gli esclusi e gli emarginati: “Se tu penserai e giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”.

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