«Paura della Fase2? Naturale, abituiamoci ai ritmi lenti»: parla la psicologa

«Paura della Fase2? Naturale, abituiamoci ai ritmi lenti»: parla la psicologa
di Leda CESARI
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Domenica 3 Maggio 2020, 10:43 - Ultimo aggiornamento: 10:48
Siamo bambini che devono (re)imparare a camminare. E per questo ci vuole pazienza, molta pazienza: e cautela. «Perché il virus è ancora in giro, quindi meglio procedere per gradi», spiega la psicologa Vera Slepoj, volto noto delle trasmissioni televisive in cui il punto di vista dell'esperto sui misteri della mente umana è assai richiesto (una su tutte: Porta a Porta). Al tempo stesso, però, bisogna ritornare a vivere, aprirsi a questa benedetta fase 2 dell'emergenza. Riconoscendola come sintomo di sanità mentale, ma senza cedere alla paura; ovvero riabituandosi gradualmente all'idea di prospettive che oggi possono anche suonare come inquietanti e che ieri, invece, erano la nostra vita, la nostra routine: la spesa, il lavoro, l'incontro con le persone care.

Quanto lavoro in più, dottoressa Slepoj?
«Parecchio. Molti pazienti che avevano terminato la terapia mi hanno chiesto di riprenderla, e sono aumentate anche le richieste di aiuto dei lettori dei giornali su cui curo rubriche di sostegno psicologico: per loro ho creato un vademecum proprio per entrare nella Fase 2 dell'emergenza».

Bene, cominciamo allora a capire come riabituarsi alla vita normale, idea che in questo momento genera un po' d'ansia generalizzata.
«Questo dipende dal livello di consapevolezza di ognuno su quello che è avvenuto, dagli strumenti a disposizione per gestire un cambiamento così totale della nostra quotidianità, dall'esperienza vissuta in concreto. Perché c'è chi ha subìto perdite affettive dolorosissime, ma anche il venir meno improvviso di uno stile di vita, di un modo di essere, di un punto di riferimento possono richiedere un'elaborazione del lutto: iniziando con la fase del dolore, poi con la seconda del rifiuto, poi con l'accettazione dell'evento e lo spostamento dell'attenzione verso nuovi obiettivi esistenziali. Queste tre tappe sono il presupposto per avviare all'interno di noi stessi una vera fase 2, ma se come abbiamo visto molti hanno negato il virus stesso e la catastrofe, la strage, come potranno arrivarci equilibratamente? Non hanno potuto elaborare il cambiamento avvenuto, quindi avranno problemi a ripartire».

In molti, però, si ritroveranno cambiati.
«Infatti verranno fuori aspetti del carattere e comportamenti inattesi. Molta gente scoprirà di non avere più gli stessi bisogni di prima. Io non penso per esempio che la gente non abbia altro desiderio che di andarsi a sedere al bar per un caffè: lo sperano i baristi, ed è comprensibile, ma non sottovalutiamo le conseguenze che la pandemia potrà aver avuto sui comportamenti individuali e collettivi, sia in una Puglia in parte risparmiata dalla tragedia che in due regioni devastate come il Veneto e la Lombardia. Molti si sono riabituati al caffè di casa, per dire, e non è detto che la brioche, oggi, rientri tra le priorità».

Ma è giusto che ci venga restituita almeno una parvenza di normalità.
«Non c'è dubbio, ma con cautela. Come si fa a rimettere in moto i mezzi pubblici e le metropolitane con il Covid-19 ancora in giro? Ovvio che la gente sia spaventata».

Forse anche un po' diffidente nei confronti del prossimo, adesso potremmo essere tutti potenziali untori.
«Perché è normale che dopo due mesi di immersione in un simile oceano di tensione, con una contabilità quotidiana di contagio e di morte, le persone abbiano paura ad approcciarsi all'altro. E che siano anche diventate più insofferenti: perché all'inizio l'angoscia viene contenuta, ma dopo due mesi così anche il soggetto più equilibrato esplode, e se è ancora a casa a fare le spese di questo è il partner. In fondo siamo un Paese tendenzialmente anarchico, poco abituato ai no e con una visione demagogica del divertimento e di una immortalità tutta da dimostrare. Un Paese che ha appena scoperto che a 65 anni si è vecchi e possibili prede del virus... Sono cadute molte maschere, in questo periodo. Però siamo anche molto creativi, noi italiani: sappiamo trasformare anche le catastrofi in arte e business. L'altro giorno è venuta una cliente con una mascherina molto bella abbinata all'abito».

Quindi l'euforia d'inizio lockdown, i balli e le canzoni sui balconi, la solidarietà..
«Il problema è che due mesi sono pochi per passare dall'individualismo più sfrenato, dall'edonismo dilagante del gossip e degli apericena a una consapevolezza compiuta sull'accaduto. Il nostro è un grande Paese, capace di reggere emergenze più terribili di questa e di grandi slanci umanitari, ma allo stato noi non sappiamo cosa succederà nella Fase 3, se ne saremo davvero usciti o se l'autunno porterà una nuova ondata di virus. Questo up and down continuo di speranza e realismo, questo timore per i destini economici personali e collettivi porterà grande scompiglio nelle relazioni».

Ma almeno avremo imparato maggiore rispetto per la natura.
«Io non credo che questo sia avvenuto, anche se me lo auguro. Certo, abbiamo capito che la natura si riprende i suoi spazi e che l'inquinamento ha fatto la sua parte anche stavolta nelle regioni più industrializzate del Paese il virus si è diffuso con maggior virulenza, e questo è un dato di fatto ma vedremo se questo si tradurrà in comportamenti più responsabili nei confronti dell'ambiente».

Riusciremo almeno ad essere prudenti, in questo ritorno alla vita?
«Certo, metteremo le mascherine e i guanti perché quando si ha paura di morire l'istinto di sopravvivenza obbliga a seguire le regole, ma poi riusciremo a mantenere alta quest'attenzione anche senza il bollettino quotidiano dei decessi? La natura umana è molto complessa, e spesso ci fa dimenticare cosa è avvenuto quindici giorni prima, o ci fa essere imprudenti. Pensiamo alle partite di calcio giocate a virus già diffuso o alla fuga dei meridionali che vivono al Nord verso il Sud: e poi questo vorrà dire che non si sono mai sentiti a casa loro, a Milano, per esempio, o che la famiglia attua il suo controllo anche quando sei a mille chilometri da casa? Sono riflessioni che dobbiamo iniziare a fare di certo questo virus ha messo fine alle grandi utopie del Novecento, a tutta una serie di certezze: l'onnipotenza della scienza, i governi forti, un'Europa che non esiste la fase 2 metterà ancor più in evidenza tutto questo».

E la paura della gente di abbandonare l'asetticità dello smart working casalingo per tornare in ufficio dove il nemico potrebbe essere in agguato.
«Almeno l'80 per cento delle persone che assisto non vuol più andare a lavorare, e preferirebbe rimanere a casa ad accudire i figli mangiando panini. Anche questo è un grande cambiamento possibile, il ritorno alla famiglia e a uno stile di vita meno consumistico. Non credo che ci precipiteremo più a comprare il vestito alla moda, anche le famiglie più modeste scopriranno di avere un sacco di roba in più negli armadi. E addio anche ai grandi happening di massa, ai concerti».

Ridimensionati, angosciati, spaventati da tutto, dall'idea di dover tornare al lavoro come di dover usare i dispositivi di sicurezza per incontrare i vecchi amici: come se ne esce? Come si vince la paura?
«La paura non è un male, perché vuol dire che siamo consapevoli. Deve però essere abbinata al coraggio: mascherine, guanti, gel e via, andare a fare passeggiate all'aria aperta, perché stare chiusi inutilmente non serve. Oppure, ed è un consiglio che ho dato poco fa a un mio cliente: fare almeno una volta al giorno le scale e il giro dell'isolato per riabituarsi gradualmente alla normalità del fuori e allentare la tensione nervosa. Da non sfogare con il prossimo: imparate a respirare con un corso di yoga o di sofrologia e cambiate stanza se vi viene di litigare. Piccole tappe per volta per riprovare l'emozione di essere fuori dalla gabbia, e poi una bella passeggiata verso il vostro meraviglioso mare pugliese: può fare miracoli».
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