Se la fede calcistica è pretesto di violenze

di Paolo Graldi
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Sabato 6 Maggio 2017, 00:05
I fatti sono noti. Nella notte un gruppo di ultras ha dispiegato un gigantesco striscione. Uno striscione con parole a caratteri cubitali sul ponte pedonale di via degli Annibaldi, da dove si scorge uno spaccato del Colosseo. «Un consiglio, senza offesa… dormite con la luce accesa», sfottò vagamente mafioso per il suo tratto intimidatorio, di pessimo gusto ma basta lì. No, gli autori della bravata, i cervellini inquieti e smaniosi di farsi notare, hanno attinto alla peggior tradizione della politica piazzaiola e incendiaria: hanno appeso quattro manichini, forse bamboli gonfiabili, chissà, vestiti con le maglie di alcuni giocatori della Roma; riconoscibili De Rossi, Salah, Nainggolan, risparmiato stavolta Totti, in uscita.

Quattro sagome lugubri appese, impiccate, sono un gesto rivoltante, evocativo del peggio. Il cappio per giustiziare il bandito, la spia, il traditore: ecco che cosa fa venire in mente. Ricordi di guerra, anche attualissimi in tante parti del mondo. Nel caso degli impiccati il tifo, il più scalmanato e violento, è stato portato fuori dalla Curva, via dallo stadio e trascinato davanti a un monumento che tutti, ovunque sul Pianeta, da sempre, viene identificato con la nostra civiltà, con la stessa città che vanta la storia più gloriosa e che ne rappresenta la testimonianza più celebrata.
Si è pensato ai responsabili come a una pattuglia di facinorosi delusi dalle prestazioni non propriamente brillanti dei Giallorossi, già autori di scorribande e di cerchi di gesso, quelli che tracciano la sinistra sagoma dei cadaveri sull’asfalto, silhouette impresse a Trigoria, il posto degli allenamenti, con le invettive minatorie e sfottenti del “Riposa in pace”.

Poi, sono spuntati gli “Irriducibili” della Curva Nord della Lazio, ancora gonfi d’orgoglio per quel 3 a 1 contro gli avversari di sempre e per sempre. Una nota stampa, un comunicato ufficiale di “meraviglia e stupore” per il sensazionalismo e l’allarmismo che anima il giornalismo italiano. Come dire: ma di che vi meravigliate, scherzavamo? Che, adesso, non si può più neppure dire una battuta che ci si scandalizza? E precisano: nessuna minaccia a nessun giocatore, le bambole rappresentano una metafora”, sullo stato depressivo della squadra. Insomma, uno sfottò verso gli insuccessi: la luce accesa è per scacciare gli incubi e null’altro. Non, per esempio, per stare in guardia contro malintenzionati.

Qualche mente fredda, che sa di legge e di tribunali, deve aver avvertito la pattuglia del Colosseo che su certi comportamenti non si scherza e dalla goliardia malintesa si può finire sul banco degli imputati e rovinarsi l’esistenza. A giocare con fuoco, talvolta, ci si scotta.

Dunque: nessuna scusa alle anime belle, e noi tra quelle, che vedono nella bravata dell’impiccagione, ben oltre il tassello di una scalata verso atti di odio permanente, di rancore dilagante, di veleni cosparsi ovunque per approdare ad una guerriglia psicologica inaccettabile e alla quale è impensabile abituarsi.

I molti precedenti, da quelle minacce del 19 marzo di due anni fa, all’Olimpico, con Totti e De Rossi chiamati imperiosamente dagli ultras della Curva sud a giustificarsi per la sconfitta:” Vi veniamo a prendere sotto casa”. Impauriti, la maglia piena di sputi, testimoni ritenuti quasi reticenti nel minimizzare quel boato minaccioso, i campioni giallorossi saranno chiamati in un’aula di Tribunale dove una passione che diviene minaccia sarà trascinata per giudicare i presunti colpevoli.

Questo clima va azzerato. E lo stesso vale per quei balordi che hanno insudiciato con scritte offensive e irriferibili la strada di Superga, in un ricordo oltraggioso dei caduti nel disastro aereo della Mole, del glorioso Torino nella notte del 4 maggio ’49, 31 vittime, la fine di una squadra fantastica, forse irripetibile, mostri sacri di un calcio di livello mondiale a cui dedicare una memoria di amore e di riconoscenza.

Gigi Buffon, in un certo senso erede di quelle gesta, ha trovato parole asciutte e magnifiche per richiamare tutti al rispetto di quel Torino leggendario “siete più morti dei morti”. Nello sport, dice il portiere della Nazionale e della Juventus, invocando senso etico tra i tifosi, è “necessario essere uomini di buona volontà”.

E tuttavia, se la buona volontà viene meno e purtroppo i segni ci sono e ripetutamente, allora è impellente l’ennesimo richiamo a chi ha responsabilità organizzative e gestionali dello sport, delle squadre, dunque anche delle tifoserie. Le quali non sono e non possono essere un corpo a sé, indipendente e irresponsabile. Non è un argomento quel che viene speso per dividere le responsabilità degli ultras da quelle della gestione.

Certo, la responsabilità penale è personale e in quella direzione si muovono le indagini e gli eventuali processi. Ma c’è qualcosa che va oltre. Quando il calcio travalica l’agonismo dentro il campo di gioco, talvolta sconfina nel razzismo, l’argomento più abbietto, quando perde lo stesso orgoglio di appartenenza, sano e entusiasmante, per inabissarsi nella volgarità e nella contrapposizione violenta (non irridente, ma violenta come i manichini dei giocatori impiccati), allora il calcio come sport esce di scena, rientra nei sotterranei degli spogliatoi per lasciare il terreno a chi del calcio si serve come di uno scudo per inscenare guerriglie.

L’amore per la squadra del cuore, per qualunque squadra sia nel cuore, è lo specchio di una passione e di una volontà che hanno come prima regola il rispetto delle regole e tra queste il rispetto degli avversari e dei propri campioni. I quali, se non vincono perché non sempre è possibile, non possono essere intimiditi, impauriti, scherniti come traditori di una causa. La maglia che indossano è per calciare in porta, per arrivare al gol e magari alla vittoria: se ce la fanno non mai per vedersi infilare la testa in un cappio.

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