Come uscire dal sisma fuori e dentro di noi

di Stefano CRISTANTE
5 Minuti di Lettura
Domenica 30 Ottobre 2016, 20:50 - Ultimo aggiornamento: 2 Novembre, 15:47
L’intervallo di tempo tra un evento sismico significativo e un altro si va accorciando nel Belpaese. Gli specialisti lo ripetono da anni e non è un mistero: l’Italia è un paese ad attività tellurica permanente. Non si può sperare che l’ultimo terremoto sia davvero l’ultimo per un gran lasso di tempo, perché le nostre esistenze prendono forma in un territorio che, in gran parte, trema o potrebbe tremare. Il sisma, accaduto che sia nei nostri pressi o più lontano, ci scuote: sia perché riviviamo le paure che abbiamo provato nel passato (a molti italiani è capitato di subire un trattamento sismico), sia perché – a contatto continuo di immagini e di notizie – sentiamo il dolore degli altri quasi sulla nostra pelle. Ora, dopo le scosse a epicentro maceratese degli ultimi giorni, la percezione si fa più sottile: non solo sappiamo quanto grande possa essere il terrore di assistere allo sbriciolamento di abitazioni, di chiese e di monumenti, ma cominciamo a sentire “sotto pelle” anche i piccoli assestamenti (ma saranno davvero tali?) di un suolo mobile e imprevedibile.
Questo vuol dire avvertire il terremoto dentro di noi, e dedicargli tempo e pensieri. Messa così, potrebbe sembrare il principio di una nevrosi di massa. Invece, vista con lenti sociologiche, questa fastidiosa sensazione potrebbe rivelarsi un’efficace metafora della nostra condizione, con qualche apertura al cambiamento di mentalità.
Le trasformazioni del nostro mondo negli ultimi decenni sono state impetuose e accelerate: dal crollo del muro di Berlino agli attentati dell’Isis non c’è stato un attimo di tregua nella sfera politico-militare. E le altre insorgenze non sono da meno: il pianeta soffre di mali strutturali, ecologici. Le forme economiche dominanti parlano il linguaggio ruvido delle disuguaglianze crescenti, mentre ogni nuova invenzione assume la forma di tecnologie che in breve ci imbrigliano in nuove dipendenze. Migliaia e migliaia di persone non possono più vivere nei luoghi dove sono nate, e lasciano una terra di macerie e di stenti. Sullo sfondo, nuove macchine intelligenti minacciano di sostituirsi alla forza-lavoro umana, disegnando un possibile scenario di disoccupazione di massa cronica. Questo, nella metafora, è il sisma. Dentro, ci sono le nostre vite.
Non è mai un evento definitivo a rassicurarci del tutto oppure ad abbatterci definitivamente: la sensazione, così come nella figura dello sciame sismico, è di avere a che fare con un movimento tellurico (a volte ad alta, altre volte a bassa intensità) permanente. Tutto ciò mette a dura prova il nostro sistema nervoso, continuamente indirizzato a creare difese contro chi potrebbe attentare alla nostra residua sicurezza. Vengono allora elaborati simboli, che il sistema dei media seleziona tra i tanti possibili, su cui scaricare un’ansia collettiva il cui nome comune è inadeguatezza. La sensazione di non sentirsi adeguati è ansia allo stato puro: accompagna molti di noi durante tutta la giornata, costringendoci a faticose operazioni di ingresso e uscita da gruppi sociali via via più ristretti, perché il fardello di un’esistenza che si ritiene simile a quella del criceto sulla ruota non si ha voglia di condividerlo. Occorre una corazza particolare per reggere questo peso, che si chiama cinismo o indifferenza. In senso letterale, in-differenza parla di un’equivalenza mortifera, quella che trasforma la straordinaria unicità di esseri e cose in nebbia cognitiva, dove non c’è distinzione. Grazie alla corazza del cinismo si può allora impugnare senza rimorsi il simbolo e scagliarsi contro il nemico. Non importa che non lo sia, o che in gioco ci siano principi universali di umanità. Quando lo scopo del gioco è salvarsi da chi attenta simbolicamente alla propria vita, non è importante che ci si sbagli o no. L’essere vuole vivere, e la prima regola che affiora tra un mare di emozioni compulsive è che una vita esiste contro la vita di qualcun altro. Quando il cinismo trasmigra contro ipotetici protagonisti di un’invasione, non importa nemmeno che non vi sia alcuna reale invasione in corso. I singoli stranieri e i singoli profughi reali vengono sostituiti da figure mitologiche negative. Un solo straniero: l’invasore. Il sottrattore di lavoro. Il mantenuto. Il maleducato. Il violento. Ecco allora la triste vicenda di Goro, figlia di una vita condotta sotto il sisma della nostra non lieve contemporaneità persino in un paese di nemmeno 4 mila abitanti.
Tuttavia nessuno finge di ignorare il sisma: anche i più ottimisti lo avvertono, e sperimentano quotidianamente quanto l’atteggiamento cinico possa rendere più facili le cose. Girarsi dall’altra parte ha i suoi vantaggi. Tuttavia difficilmente la disattenzione potrà limitarsi all’indifferenza: sarà richiesto lo schierarsi, consentendo che l’idea di proteggerci dall’altro ci riporti a una specie di primordiale purezza. Una volta superato un certo limite, ogni ideologia è ammessa, compreso il riciclaggio di quelle che furono maledette universalmente meno di un secolo fa.
C’è però un altro modo di vivere nella metafora del sisma. In primo luogo, ammettendo la nostra ansia, che ciascuno di noi crede legata a un proprio deficit personale. La nostra ansia è solo apparentemente un fenomeno individuale: dice la particolare e amara inquietudine dell’individuo metropolitano che già Simmel, all’inizio del ‘900, definiva “blasé” (cioè scettico e indifferente), sollecitato in mille direzioni e valutato da infinite occhiate di altri giocatori impegnati in un’impresa cui sembra mancare il senso. Ecco il punto: un’umanità frazionata in atomi non è che l’ultima e più aggiornata riedizione della guerra di tutti contro tutti del primo capitalismo, in cui l’ipertrofia del profitto di pochissimi si afferma come pura forza.
Questa è la direzione verso cui tende il sistema sociale neo-liberista dominante. Noi abbiamo però più esperienza dei primi nativi del capitalismo selvaggio. Noi possiamo intanto dichiarare la nostra vicinanza a chi ha bisogni più acuti dei nostri, italiano o straniero che sia, e renderci disponibili a dare qualcosa di noi. Poi cercare di riannodare i fili della frammentazione individuale, come chi unisca i puntini di un gioco enigmistico. Il disegno di fondo da evidenziare è l’umanità in quanto tale, che sente il rombo del sisma e che può scambiarlo per catastrofe e palingenesi, quando invece vuol dire che i nodi sono venuti al pettine, e che occorre ricreare una coscienza collettiva degna di questo nome. Cioè una coscienza di specie. Umana.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA