L'eredità di Leogrande: lo sguardo di Alessandro per capire questo mondo

L'eredità di Leogrande: lo sguardo di Alessandro per capire questo mondo
di Vincenzo MARUCCIO
4 Minuti di Lettura
Venerdì 29 Aprile 2022, 13:24

Che raccontasse luci e ombre della sua Taranto, che parlasse dell'Albania e dei Balcani arrivati sulla ribalta europea o di come stava cambiando questo Paese, Leogrande ricostruiva sempre un mosaico più completo dei singoli pezzi del puzzle che altrimenti rischiavano di restituire una verità parziale. O, addirittura, faziosa. Uno sguardo che ad ogni opera (o semplicemente in un articolo di giornale) si componeva per tasselli solo apparentemente slegati tra loro e diventava un quadro d'insieme. Questo faceva Leogrande: si sporcava le mani con i fatti mettendo in fila le domande più scomode e, una volta arrivate le risposte, lo sguardo si era già levato in alto. In una posizione privilegiata per capire meglio cosa stava accadendo. La sua lezione più grande: un metodo più che uno stile. Quel che ci resta, forse perfino più dei singoli libri. Quel che oggi ci manca.

Chi era Leogrande


Di Leogrande, saldamente ancorato alle sue radici tarantine anche quando viveva altrove si conosce praticamente tutto ed è difficile aggiungere qualcosa. Scomparso troppo presto, nel 2017 a soli 40 anni, e ieri ricordato con la sesta edizione del premio a lui dedicato. Ricordato sempre con affetto come a pochi altri accade nel mondo vischioso della cultura. E non solo per il drammatico risvolto biografico: a fare la differenza è il lascito di un rigore morale e di una ricerca narrativa che ne fa un intellettuale meridionalista capace di tenere accesi i riflettori sul mondo senza alcuna velleità di fondamentalismo identitario. Lungo l'elenco dei modelli culturali a cui ci si potrebbe richiamare su questo fronte: uno su tutti, Gaetano Salvemini, maestro indiscusso di concretezza pragmatica nello scavare dentro le ragioni politico-sociali.

Il suo lavoro

Lungo l'elenco dei modelli narrativi, da Truman Capote a Ryszard Kapuscinski, ma ciascuno potrebbe aggiungere il suo preferito. È dentro questa linea di intellettuali e di reporter-scrittori che Leogrande trova presto la sua autonomia grazie alla concomitanza di due fattori: da una parte, la vastità dei suoi interessi storici, filosofici e sociologici e politici; dall'altra, la fedeltà ad una narrazione basata all'accertamento delle fonti e sulla verifica dei documenti. Leogrande sarebbe stato lo stesso un buon scrittore, certo, ma non avrebbe fatto la differenza se a questo non si fosse aggiunto un tratto umano intriso di curiosità per le storie delle persone. Forse ereditato dal padre, professore di Lettere e volontario in Caritas attraverso cui il mondo della solidarietà (i poveri provenienti dall'altra parte dell'Adriatico) si era aperto ai sui occhi nella Puglia della sua adolescenza. Una naturale vicinanza a chi non aveva voce che si era trasformata nella molla dei suoi libri.
Ci sono scrittori che diventano una voce.

Ernest Hemingway la voce dell'America del Novecento, Alberto Moravia della crisi della borghesia italiana, David Foster Wallace e Michel Houellebecq del disorientamento dell'età che viviamo. Ecco, i libri di Leogrande non aspirano mai a questo, anzi la scelta è opposta: è uno scrittore che dà la voce agli altri, a quelli che non ce l'hanno e rischiano di non averla mai. È ciò che contraddistingue l'intera attività: quando viviseziona le contraddizioni della città-Ilva tra l'era-Cito e il sogno della rinascita turistica in Fumo sulla città e in Dalle macerie, quando mette il dito nella piaga del neo-schiavismo agricolo in Uomini e caporali, quando racconta la disperazione sui barconi del Mediterraneo nel Naufragio e le cicatrici più dolorose dei Sud del mondo nella Frontiera. Leogrande va sul campo e ne raccoglie le testimonianze senza cedere al facile sentito dire: le lascia decantare rinunciando volutamente alla presa diretta e le incrocia con il contesto storico, politico ed economico nella consapevolezza che anche la storia più particolare può essere compresa appieno solo se rapportata a ciò che ci circonda. Un lavoro paziente lontano dai riflettori negli anni in cui, invece, lo storytelling prevalente prendeva le forme più smart del racconto social tra una frase a effetto, un tweet o, addirittura, un selfie per dire io c'ero. È il metodo Leogrande capace di resistere nel tempo e solo apparentemente vecchio nell'epoca della comunicazione digitale: l'unico inattaccabile quando la realtà più inaspettata sconcerta nella sua crudezza.


Ecco, cosa avrebbe fatto oggi Leogrande: avrebbe lasciato la scrivania e si sarebbe rimesso in viaggio per cercare di capire qualcosa in più di questi missili che sono tornati drammaticamente a toglierci il sonno e degli effetti geopolitici di questo nuovo campo di battaglia delle risorse energetiche. Farsi delle domande (sempre almeno due, mai fermarsi alla prima) e trovare le risposte nella realtà più che negli ideologismi. Quasi un ribaltamento del messaggio pasoliniano Io so, ma non ho le prove. Leogrande, no: le prove, lui, le cercava ed era consapevole che non c'era altra strada per conoscere le cose. Strada ardua, ma l'unica possibile per avvicinarsi alla realtà. L'unica per cui valesse la pena di scrivere.
Vincenzo Maruccio
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA