La coincidenza che crea il capolavoro

di Antonio ERRICO
4 Minuti di Lettura
Domenica 26 Gennaio 2020, 19:19 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 14:35
Adesso Daniele Del Giudice ha 70 anni. Forse di sé, della sua vita, non ricorda più nulla. Oppure forse sì, ricorda tutto. Ma non sa dire che cosa ricorda, oppure la memoria gli è assolutamente indifferente. Vive in una casa di cura a Venezia, assediato dall’Alzheimer. 

Lo racconta Ernesto Franco in due belle e tristi pagine sul Robinson di Repubblica. Scrive che vive in un corpo inospitale ma resistente. Da cinque anni percepisce il vitalizio di 24.000 euro all'anno della legge Bacchelli.
Quando uscì Lo stadio di Wimbledon era il 1983, e Daniele aveva trentaquattro anni.

Poi vennero gli altri libri: altri sei, credo. Il secondo fu Atlante occidentale, che finisce con questo dialogo: Credevo che non sarei mai arrivato in tempo. C'è ancora qualche minuto. Ho sentito la radio. Anche per te ci sono novità. È una giornata di molte novità, per me e per te. Bene. E adesso?. Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova. E questa?. Questa è finita. Finita finita?. Finita finita. La scriverà qualcuno? Non so, penso di no. L'importante non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento.

Queste ultime parole del romanzo smentiscono molte considerazioni e convinzioni. Per esempio quella, sintetizzata da Gabriel Garcia Marquez, secondo la quale la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per poterla raccontare.

Forse Daniele adesso non ricorda di aver raccontato qualcosa. Oppure ricorda di aver raccontato qualcosa ma a quell'aver raccontato non dà nessuna importanza. Forse, se ricorda, dà un'inconscia importanza vitale ad una sensazione, un'emozione, una percezione, un trasalimento, un brivido. Dà un'inconscia importanza soltanto allo sfilacciato ricordo di un sentimento. Tutto il resto, tutte le pagine che ha scritto, le sue storie, i suoi personaggi, si sono fatti così infinitamente lontani che è come se non ci siano mai stati, non siano mai stati pensati. È soltanto quella scaglia di inconsapevole memoria di vita vera che lo fa reggere in piedi.

Eppure, quel dialogo conclusivo di Atlante occidentale, oppure la pagina di un altro qualsiasi dei suoi romanzi, o una frase sola, o una parola sola, il più marginale personaggio al quale ha dato un'esistenza d'inchiostro, avranno più vita di quella che avrà il suo corpo.

Una beffa. Una lusinga. Una disperazione. Una consolazione. Una ricompensa. Forse ogni racconto che si fa, ogni arte, è tutto questo insieme: beffa lusinga disperazione consolazione ricompensa. Tutto questo insieme e altro ancora, molto altro ancora; a volte, spesso, indipendentemente dal rapporto che ciascuno ha con la propria arte, il proprio racconto. Soprattutto, indipendentemente dalla condizione di qualità formale di quell'arte e di quel racconto. La sola cosa che si può considerare è la qualità interiore, il senso profondo, abissale. L'unica cosa che si può considerare è il grado di coincidenza che si riesce a realizzare fra l'esistenza e la simulazione che se ne fa con il racconto.

È questa coincidenza che trasforma un'opera in capolavoro.

La storia è finita, dice il romanzo nel finale, e probabilmente non ci sarà nessuno che penserà di scriverla. Ma scriverla non è importante; l'importante è averla vissuta, averne provato il sentimento.

La parola storia può essere sostituita con quella di vita: un sinonimo. Allora si può anche dire che raccontare la vita non è importante, che è importante, essenziale, viverla, provare nei suoi confronti un sentimento e assaporare quel sentimento. A volte ci si ritrova a dover scegliere, a meno che non si riesca a creare quella condizione di coincidenza fra l'esistenza e la scrittura.

Qualche volta accade. Quando esistenza e arte si rassomigliano a tal punto da non distinguersi più, quando l'esistenza ha bisogno dell'arte per potersi dare una motivazione o almeno una giustificazione, allora accade.
Ha detto Pirandello: La vita o si vive o si scrive, io non l'ho mai vissuta, se non scrivendola.

Sì, qualche volta accade. Qualche volta è accaduto anche a qualcuno che abbiamo conosciuto. È accaduto a Salvatore Toma Antonio Verri, Vittorio Pagano. È accaduto e accade a molti altri che non abbiamo conosciuto e non conosciamo.

Forse anche a Daniele Del Giudice è accaduto, e nessuno può sapere se non ne abbia consapevolezza, in qualche istante. Chissà se in qualche istante di consapevolezza non gli torni alla memoria quella pagina in cui diceva di certe frasi lanciate come reti per raccogliere tutto il resto, e che potevano essere tirare a riva e staccate dalla storia e portate via. Chissà se non abbia ricordo di quel personaggio che dice: Lui sapeva che non avrebbe più potuto accucciarsi tra le parole come un animale nella tana.

Forse Daniele aveva trovato la coincidenza. Era riuscito ad arrivare al punto in cui la possibilità di esistenza è subordinata alla possibilità di scrittura. Forse aveva raggiunto quella condizione in cui la rassomiglianza fra vivere e scrivere diventa perfetta, e non si distingue più, non si può né si vuole distinguere più.

Chissà se non continui a scrivere, Daniele Del Giudice: lì, nella casa di cura a Venezia, in quel posto molto bello e tranquillo e accogliente, come dice Ernesto Franco. Chissà se non continui a scrivere, anche senza fogli, anche senza biro, senza una tastiera. Come si fa a sapere se non scriva ancora, tracciando e lasciando le parole nella sua mente, perché magari quando si raggiunge il punto di coincidenza, quando la rassomiglianza diventa perfetta, nessuno può cancellarla più: nemmeno l'Alzheimer. Come si fa a sapere se ancora non si accucci tra le parole come un animale nella tana. Come si fa a sapere.


 
© RIPRODUZIONE RISERVATA