Quei detenuti picchiati una ferita inferta alla democrazia

di Massimo ADINOLFI
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Mercoledì 30 Giugno 2021, 05:00

A volte bisogna trattenere le parole. Ritirare la penna. Rinunciare, se possibile, anche alle opinioni e lasciare che parlino i fatti, in tutta la loro crudezza. Il 6 aprile dello scorso anno, nel reparto Nilo del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, i detenuti, che il giorno prima avevano inscenato una violenta protesta, dopo la notizia di un caso di positività al virus Covid 19, vengono puniti. La punizione, per i magistrati è «un’orribile mattanza, indegna di un paese civile».
È un’umiliazione, in un caso almeno è una vera e propria tortura, negli altri casi una lunga serie di soprusi, offese, pestaggi. Accompagnati dai ringraziamenti del comandante dell’istituto, Gaetano Manganelli, agli uomini che si sarebbero macchiati di simili infamie. Ci sono spezzoni di video girati dalle telecamere di sorveglianza, e intercettazioni. C’è tutto quello che serve per temere che a quasi vent’anni di distanza dai fatti di Genova – dall’assalto alla scuola Diaz, dalle violenze nella caserma Nino Bixio, a Bolzaneto – in un altro luogo di detenzione, uomini della polizia penitenziaria abbiano compiuto atti di lesione, maltrattamento, tortura, in quella che il ministro della Giustizia Bonafede, allora in carica, definì in Parlamento «una doverosa azione di ripristino della legalità».
I fatti, e le norme. Il divario enorme tra gli uni e le altre. La Costituzione italiana, al terzo comma dell’articolo 27, afferma che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Non aggiunge: «quasi sempre, salvo quando i detenuti esagerano e occorre ripristinare la legalità, con le buone o con le cattive». Un’aggiunta del genere non c’è.
E non c’è nulla del genere neanche nell’ultima riforma dell’ordinamento penitenziario, in tema di trattamenti nei luoghi di detenzione. Da nessuna parte si legge che, se e quando occorre – per fargliela vedere, per fargliela pagare, per impartire una lezione – è consentito infilare un manganello nell’ano, far inginocchiare e picchiare i detenuti, colpirli sui genitali, bruciargli la barba. La riforma prova invece a implementare negi istituti di pena le «regole minime europee in materia penitenziaria», le quali sono volte ad assicurare «condizioni umane di detenzione e un trattamento positivo». La riforma, anzi, torna sulla materia dei diritti fondamentali dei detenuti (non è che siccome sei finito in carcere perdi ogni diritto e puoi essere trattato come carne da macello, anche se è quello che si legge in queste ore: «li abbattiamo come vitelli. Domate il bestiame»), e all’articolo 11, comma 3, ribadisce che «è vietata ogni violenza fisica e morale in suo danno». Vietata. Sia fisica che morale.
Può bastare, forse. In realtà non basta. Perché saranno condotti tutti i doverosi accertamenti, e in attesa che facciano il loro corso sarà prudente sospendere il giudizio. E d’altra parte sarà giusto parlare di mele marce e rinnovare, com’è inevitabile, la fiducia al corpo della polizia penitenziaria (la ministra Cartabia lo ha già fatto). Si denunceranno le condizioni in cui gli agenti sono chiamati ad operare, stanchi, esasperati e sottopoagati, e anche questo è giusto. Forse qualcuno dirà che in molti istituti di pena si sono comunque fatti significativi passi avanti, in materia per esempio di diritto alla salute, anche se a Santa Maria Capua Vetere è stata negata, a quel che sembra, la possibilità anche solo di recarsi in infermeria, per farsi curare. Ma la verità è che nel discorso pubblico chi sta in carcere se lo merita e basta, se l’è cercata, lì deve marcire e niente gli è dovuto. La verità è che l’istituzione penitenziaria rimane per molti un luogo eslege, dove finiscono i delinquenti che bisogna levarsi di torno, e dove non vogliamo neppure sapere quel che succede. Buttare la chiave: questa è la richiesta che viene dalla società civile, credo la sola. Nessuno chiede migliori condizioni di vita per i carcerati, o opportunità di lavoro e di svago. Tutti pensano che ogni euro speso per la detenzione è un euro buttato, sprecato, sicuramente immeritato. E nessuno vuol sentirsi ripetere come una filastrocca stantia, che la civiltà di un Paese si misura proprio in quei luoghi, in quegli spazi, dalla possibilità o meno che un agente usi il manganello, che il collega lo copra, che il superiore lo inciti, addirittura. O che il medico non stili il referto e trucchi le carte, e il comandante, infine, tributi un applauso al coraggio dei suoi uomini.
Santa Maria Capua Vetere, carcere, 6 aprile 2020: ricominciate da qui a parlare di giustizia, di pene, di umanità, di dolore e di riscatto, di clemenza oppure di recupero.

Ricominciate, se ci riuscite.

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