«In trent'anni il panorama è cambiato ma la filiera non è tutta in chiaro»

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Domenica 23 Settembre 2018, 09:25 - Ultimo aggiornamento: 14:52
Un tempo nel Basso Salento le tomaie delle scarpe le trovavi in ogni casa, le vedevi sui tavoli delle donne che cucivano con un occhio ai figli e l'altro ai fornelli, dando vita a una microeconomia fondamentale ma interamente basata sul sommerso. E lo stesso facevano le ricamatrici nel Tarantino, le sarte nella zona di Nardò e tutte le innumerevoli comparse dell'epopea del Tac, il tessile abbigliamento calzaturiero, che in circa 30 anni ha cambiato diversi volti e committenti restando però un segmento basilare nell'economia della Puglia meridionale post agricola.
Giuseppe Guagnano, memoria storica di Filtea Cgil di Lecce (da un anno passato alla Flctem) racconta cosa è cambiato da allora e come, nonostante sopravviva in alcune sacche di nicchia, quel sommerso ha perso il suo humus.
Segretario, un allarme infondato?
«No, questo mai: non voglio dire che il sommerso sia del tutto stato sconfitto nel settore della moda. Ma nemmeno possiamo dire che il panorama di oggi somigli a quello di 30 anni fa».
In cosa è differente?
«Il contratto di gradualità degli anni 80 nacque proprio per far emergere le micro imprese del Tac che diventavano una fetta importante dell'economia locale ma erano del tutto deregolamentate: si lavorava in laboratori improvvisati, coi fili elettrici per terra. Situazioni da incubo e senza alcuna garanzia per i lavoratori».
Poi che avvenne?
«Si passò al contratto collettivo del lavoro a fine anni 90. In quei dieci anni ci fu una selezione naturale delle imprese, con differenza notevoli nelle diverse aree ovviamente. Poi la delocalizzazione, la crisi e la ripresa, oggi, di una realtà d'eccellenza».
I faconisti lavorano per le grandi aziende, ma la filiera è tutta così chiara?
«I faconisti lavorano per grandi aziende e sono del tutto in regola. Ma ovviamente la filiera è lunga».
E finisce con le sartine a domicilio di cui parla il New York Times?
«La filiera è certamente più difficile da seguire nella sua ultima fase: dove si possono verificare ancora situazioni fuori contratto. Ed esistono anche alcuni lavoranti a domicilio, certo, ma le loro buste paga non sono più quelle di un tempo. Almeno non qui da noi».
Perché Barbetta dice che Max Mara - uno dei marchi citati dall'inchiesta del NYT - qui non si può produrre in Italia?
«Perché il prezzo non consentirebbe di rispettare il contratto. Con Gucci, Armani, Ferragamo, che hanno un prezzo più alto, le cose cambiano».
Il lusso quindi diventa sinonimo di eticità?
«Non è necessariamente così ma di fatto in zone come Nardò, dove si fanno abiti da sfilata, è difficile che le aziende madri chiudano un occhio. Diverso è nelle aziende contoterziste strozzate dai faconisti che a loro volta hanno commesse poco redditizie. Ma si tratta ormai di situazioni relegate ad alcune nicchie di lavorazione».
Come il ricamo, un tempo grande tradizione?
«I grossi ricamifici non ci sono più da quando il corredo è scomparso. Il ricamo esiste ancora ma di fatto non ha più il mercato di un tempo ed è diventato una nicchia, una delle tante dove potrebbe annidarsi il sommerso. Ma di fatto le possibilità di aggirare le regole, anche col le deroghe al contratto nazionale, esistono: sta a noi vigilare e promuovere l'eticità, ma senza dimenticare quanto è stato fatto».
Alu
 
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