«Ucciso perché si ribellò alla Scu», carcere a vita per l'omicidio di Gabriele
La famiglia: «Nessuna pena sarà mai troppo dura»

Gabriele Manca
Gabriele Manca
di Erasmo MARINAZZO
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Giovedì 25 Giugno 2020, 17:09 - Ultimo aggiornamento: 27 Giugno, 07:46
«Nessuna pena sarà mai troppo lunga, nessuna sentenza mai troppo dura... per chi ha spezzato la tua e la nostra vita, nessuno ti riporterà dalla tua mamma e dal tuo papà che ti aspettano da 20 anni, dai tuoi fratelli che ti amavano e ammiravano, dai tuoi nipotini che non hai potuto conoscere ma ti amano attraverso i nostri racconti, da tutti quelli che ti volevano bene». Sono le parole della famiglia di Gabriele Manca, il 21enne di Lizzanello freddato dalla Scu nel 1999 e per cui ieri, dopo altri 21 anni è arrivata la sentenza a carico dei tre responsabili: ergastolo. I giudici della Corte d'Assise di Lecce (presidente Francesca Mariano, relatore Pietro Errede, a latere i giudici popolari) hanno inflitto la condanna all'ergastolo ad Omar e Pierpaolo Marchello, entrambi 41enni di Lizzanello, ed a Giuseppino Mero, 54 anni, di Cavallino. Pene accessorie, l'isolamento diurno per un anno e l'interdizione perpetua dagli uffici pubblici.
Una provvisionale di 50mila euro a testa è stata riconosciuta al padre, alla madre ed ai tre fratelli della vittima costituitisi parte civile con l'avvocato Fabrizio D'Errico.

Gabriele venne ammazzato a 21 anni perché non si volle piegare alle logiche del clan mafioso all'epoca dominante su Lizzanello. Era il 17 marzo del 1999 quando si persero le sue tracce. 
Dal processo la ricostruzione degli ultimi momenti della sua vita: venne attirato in campagna con un escamotage, mentre il padre Giovanni lo attendeva alle 17 per accompagnarlo alla stazione ferroviaria di Lecce: avrebbe preso il treno per Foggia dove stava svolgendo il servizio militare.

Le indagini e il processo hanno detto che Giuseppino Mero, allora amico del giovane, avrebbe accompagnato Manca in campagna con l'inganno, contando sulla sua fiducia. Ad attenderlo Omar Marchello, Carmine Mazzotta e Pierpaolo Marchello. A sparare secondo i giudici fu Mazzotta. Alle spalle, nella corsa disperata dalla morte. Quattro colpi.


Il dispositivo della sentenza è stato letto dopo quasi cinque ore di camera di consiglio ed ha in sostanza accolto la richiesta presentata dal pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Lecce, Carmen Ruggero, al termine della requisitoria del 22 maggio: carcere a vita.
Il processo di primo grado ha dunque avallato le conclusioni dell'inchiesta condotta dalla Dda con i carabinieri del Ros e che a gennaio di due anni fa diventò nota con il blitz a carico di Omar Marchello, il leccese Carmine Mazzotta, 46 anni (giudicato a parte e condannato a 30 anni nel processo con rito abbreviato) e di Mero.
Un omicidio di mafia, lo ha definito il magistrato titolare del fascicolo. Il processo e l'inchiesta hanno raccontato di un ragazzo insofferente a sottoporsi alle gerarchie criminali allora dominanti a Lizzanello. Un ragazzo che sbandierava per strada gli atti del processo che lo accusavano di lesioni per il colpo di coltello con cui aveva ferito al volto Omar Marchello, ritenuto un referente della Sacra corona unita. Un gesto che aveva il sapore della sfida e della delegittimazione di Omar Marchello poiché dimostrava che avesse violato una delle regole ferree della criminalità: mai denunciare, i conti si risolvono personalmente. Uno spacciatore di droga che non voleva rispettare il monopolio del clan, Manca, e tantomeno il suo esponente di spicco tant'è che lo picchio a colpi di stecca di biliardo nelle gambe.
Gli avvocati difensori Giancarlo Dei Lazzaretti, Germana Greco Umberto Leo, Fulvio Pedone ed Angelica Angelini hanno sostenuto che non si fosse formata la prova della colpevolezza degli imputati, attualizzata dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Alessandro Verardi ed Alessandro Saponaro, nonché dal racconto fatto da un ragazzo di minacce che avrebbe ricevuto da Mazzotta: «Fara la stessa fine di Gabriele Manca, se non tieni la bocca chiusa».
Tre mesi il termine indicato per il deposito delle motivazioni della sentenza e questo caso approderà poi davanti alla Corte d'Assise d'Appello.

 
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