L'intervista sotto l'ombrellone
Carrisi: quell'estate da manuale
(delle giovani marmotte)

L'intervista sotto l'ombrellone Carrisi: quell'estate da manuale (delle giovani marmotte)
di Anita PRETI
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Domenica 14 Luglio 2013, 23:03 - Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 11:16
LECCE - Una musica di met Ottocento, scritta da due fratelli napoletani, i Ricci, ha aperto ieri sera la trentanovesima edizione del Festival della Valle d'Itria. Ma Donato Carrisi, l'autore italiano di thriller pi venduto nel mondo, come recita lo slogan della sua casa editrice, la Longanesi, era lontano ieri sera da Martina Franca, la sua terra, dal Festival, dal clima di festa e da "Crispino e la comare", l'opera inaugurale. «Sono a Milano, nel caldo di questa città. Per ascoltare il concerto dei Negramaro a San Siro».

E se invece fosse stato a Martina, sarebbe stato in platea?

«Non potrei sottrarmi al Festival, il suo presidente, Franco Punzi, è il fratello di mio zio, uno zio acquisito. Siamo tutti molto legati. Ma non è solo per questo. Il Valle d'Itria ci riconduce a Paolo Grassi, il fondatore con Giorgio Strehler del Piccolo Teatro. Mio padre se lo ricorda, quando veniva negli ultimi anni a Martina ed io ricordo un suo buffetto sulla guancia. Grassi è stato una figura importante per la città dove ritrovava parte delle sue origini. Ha battezzato tutti noi martinesi con la sua presenza. Continua ad essere, ancora oggi, una figura molto vivida per me».

Lei ritiene che Martina Franca faccia abbastanza per il suo Festival oppure no?

«Il martinese medio ignora l'importanza del Valle d'Itria. Ma basta girare il mondo per cambiare opinione. Ovunque io vada, sento parlare di Martina, città della musica».

E lei va davvero molto lontano con i suoi libri, forse le manca solo l'Australia. Il più recente, "L'ipotesi del male", e poi "La donna dei fiori di carta", "Il tribunale delle anime", "Il suggeritore" sono stati tradotti in 26 paesi, non è un orgoglio da poco. C'è un refrain estivo che impone la lista dei libri da leggere sotto l'ombrellone. Questo è quello che capita agli altri. Ma uno scrittore, che vive immerso tra le pagine dei libri, cosa fa d'estate?

«Continuo a leggere, anzi forse è questa la stagione giusta per la parte più consistente delle mie letture. Quando scrivo mi tengo lontano dai libri altrui, per non lasciarmi influenzare. Mi creda, è un bel sacrificio».

Il primo libro, fra le sue letture, che si lega all'estate?

«“Il manuale delle giovani marmotte”. Ho sperimentato tutti i consigli. D'estate io ero un divoratore di fumetti. Poi a settembre, con le prime piogge, i primi temporali, nella casa di campagna, mi rifugiavo accanto al camino e leggevo gialli».

In particolare?

«Agata Christie. Mi piaceva andare in una libreria di Martina che adesso non c'è più, la Clio. C'era un odore di umido che adesso, nel ricordo, mi sembra persino interessante. Lì sceglievo un giallo, anche più di uno, da portare a casa».

Agatha Christie, la sua maestra?

«Chissà, in un certo senso...Ma questo accadeva a settembre, prima c'erano solo le raccolte di fumetti, i più accessibili, servivano per distrarmi dal lavoro vero che erano i giochi con i miei amici».

A cosa giocavate?

«A guardie e ladri. Ma era una cosa seria, eravamo armati».

Sarebbe a dire?

«Pistole, fucili. Il mio ricordo è legato ad una fionda, bruttissima ma efficace, costruita da mio nonno».

Contro chi la usava?

«Le lucertole. Eravamo una bella banda di ragazzini. Erano amichetti stagionali. Alcuni li rivedevi ogni anno ma di altri speravi che rinnovassero il soggiorno a Martina. Puntualmente, poi, venivo richiamato dai miei per innaffiare le piante. Toccava sempre a me e si interrompeva quella bella atmosfera».

C'è sempre quel giardino?

«Sì, in contrada Madonna del Pozzo. Adesso, ogni volta che ritorno, innaffio le piante. E mi piace».

C'è un odore che le ricorda l'estate?

«Quello dei tigli, a giugno. Mi commuove ancora».

I turisti apprezzano il cibo della nostra terra. Una cena. Di quell'estate.

«Le uova al tegamino, in un pentolino di cento anni fa. Ed una bella insalata di rucola».

Poi ci sono i suoni che riemergono dal baule dei ricordi.

«Quella dei freni della bici. Io riuscivo a riconoscere gli amici in arrivo: dallo stridio dei freni sapevo se era Mario, Dino, Pierangelo».

Di che colore era la sua bicicletta?

«Arancione».

Quando comincia l'estate?

«L'ultimo giorno di scuola. Si apriva quella parentesi che durava in fondo solo due mesi e mezzo. Finito quel giorno, finita la scuola, adesso posso dire che mi hanno tolto tutto».

Poi, diventato grande, famoso, lei ha cominciato a girare il mondo. Dove ha ritrovato certe magie, certi incantamenti?

«La Grecia è parte del mio cuore».

In che senso?

«In tutti i sensi».

Ci torna spesso?

«Spessissimo».

Noi e la Grecia. È vero che siamo molto simili?

«Verissimo, siamo tutti in debito».

Ma lei, di questa Magna Grecia, a chi sente di appartenere: agli jonici, ai salentini, alla gente di collina, la sua Murgia?

«Domanda azzardata: io sono per metà martinese, con mia madre, e, con mio padre, metà salentino. È di Strudà. Mi sento legatissimo al Salento a partire da quando, per la festa di Sant'Oronzo, mano nella mano di mio nonno Oreste, alzavo lo sguardo verso il cielo per guardare i fuochi d'artificio».

Frequenta ancora queste zone?

«Ritorno tutti gli anni. Giro ovunque, Otranto, Lecce e mi godo lo stupore che si disegna negli occhi degli amici che mi accompagnano».

Tre luoghi da mostrare.

«Santa Maria di Leuca, non la fine dell'Italia ma la fine del mondo. La Cattedrale di Otranto, Santa Croce. Pietre sì, ma è da lì che passano le persone. E poi indicherei a tutti il colore del cielo. Sulla Murgia è di un azzurro strano, struggente, assomiglia alla morte, è il cielo che uno vorrebbe vedere in punto di morte. A Lecce, invece, il cielo è giallo, ocra. Diverso».

Anche di Taranto si dice che abbia una luce speciale.

«Non amo parlare di Taranto. Hanno rinunciato a tutto. Anche ad un referendum che non avrebbe cambiato nulla ma sarebbe stato indicativo. Ma come pensa che mi senta se, in campagna, sono scattate le proibizioni per la diossina: io ho sempre mangiato l'insalata di quell'orto, e bevuto quel latte, e riempito i polmoni di quell'aria. Non posso perdonarlo a nessuno».

Chissà, forse arriveranno tempi migliori, almeno per i giovani. Cosa pensa di questi ragazzi? La loro estate è spensierata come è stata la sua?

«Non saprei. Ci sono cose che i giovani di oggi non conosceranno, peccato. Però sono più intelligenti di noi, più colti perché bombardati da informazioni».

E ricchi di speranze?

«Direi di sì».

La sua era quella di diventare…?

«Un attore. Oppure un imitatore. Mi diletto ancora, con gli amici, a ripetere le voci».

In fondo i personaggi dei suoi libri non sono che attori, e lei il regista.

«Sicuramente. È quello che faccio. Con loro mi sento un padreterno».

Un film ha una colonna sonora. Quella della sua estate?

«“Vamos a la playa” dei fratelli Righeira. Con la sua complicità, sono riuscito persino a fare una dichiarazione d'amore».

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