Di Gianni: «Il male di San Donato eternato nel mio film»

Un fotogramma del documentario "Il male di San Donato" 1965
Un fotogramma del documentario "Il male di San Donato" 1965
di Eraldo MARTUCCI
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Sabato 9 Aprile 2016, 12:37 - Ultimo aggiornamento: 13:08
L’Italia del secondo dopoguerra presenta un panorama piuttosto singolare nel campo artistico e musicale. Da una parte il Festival di Sanremo che, soprattutto all’inizio, rimane totalmente avulso dalla realtà per cadere nella retorica, nel patetico e nel patriottismo che grondavano praticamente da ogni brano. A differenza del cinema neorealista, della letteratura e della pittura di quegli anni che invece raccontavano l’Italia com’era, e per far questo avevano rinnovato il loro linguaggio.
Fu soprattutto il cinema a raccontare l’altra Italia, quella dei diseredati, dei reduci e delle prostitute. Un cinema impegnato che rivolgerà anche il proprio interesse alla nuova questione meridionale ed allo studio delle tradizioni popolari. Ed un protagonista assoluto di questo filone è stato il regista e documentarista Luigi Di Gianni, che oggi sarà nel Salento per una giornata dedicata interamente a lui per ricordare, tra l’altro, le riprese che fece a Montesano Salentino, tra il 6 ed il 7 agosto 1965, per “Il male di San Donato”, documento unico su pratiche terapeutiche ormai scomparse.
Autore di oltre sessanta documentari e vari sceneggiati televisivi, Di Gianni ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il nastro d’argento alla Biennale di Venezia del 1975 per il film “Il tempo dell’inizio”.
Maestro Di Gianni, come è nato il suo rapporto con il Salento?
«Il mio arrivo in questa bellissima terra nacque da un’idea della mia amica antropologa Annabella Rossi, che mi descrisse l’evento e tutto quello che succedeva durante la festa di San Donato a Montesano. Decisi allora di partire con lei, dormimmo nello stesso albergo a Maglie in una notte dal caldo insopportabile. Ma il giorno dopo ci dividemmo perché Annabella sapeva benissimo che io non tolleravo presenze antropologiche quando lavoravo. Lei faceva fotografie per conto suo, mentre io incontrai il parroco a cui dissi che volevo girare nella cappella di San Donato. Il giorno precedente la cerimonia, il 5 agosto, collocai delle luci di base all’interno della cappella per essere così pronti a girare con le luci già predisposte».
Che sensazioni provò durante le riprese?
«Fu una specie di rivelazione, soprattutto quando riprendevo chi aveva delle convulsioni. Di fronte alla figura di San Donato ho visto delle reazioni assolutamente straordinarie. È noto che il Santo protegge gli epilettici ed i malati di mente. Sembrava quasi che ci fosse una specie di contagio in questo evento parossistico religioso. Le persone si dimenavano, invocavano il Santo in modo struggente e dal mio punto di vista molto affascinante. Quelli che erano in trance non vedevano proprio la macchina da presa. Invece gli accompagnatori erano molto minacciosi, e tentarono anche di distruggerla. Comunque quello che mi ha colpito di questo evento è stata la matrice cristiano-pagana, anzi direi più pagana».
La magia ed il rito d’altronde sono tra i temi a lei più cari…
«De Martino mi diceva spesso che non ero adatto per le cose normali, ma per quelle apocalittiche! Altrimenti rimanevo assolutamente insensibile di fronte alla materia antropologica. Del resto in tutti i miei documentari non sono mai rimasto passivo. Non sono un regista “a freddo”, ho sempre messo una forte componente emotiva e partecipativa».
Quando è nato il suo amore per la civiltà contadina?
«Da quando ero bambino. A nove anni andai con la mia famiglia per un mese di vacanza in Lucania, nel paese nativo di mio padre, Pescopagano in provincia di Potenza. E lì scoprii un mondo completamente diverso da quello romano, dove vivevo. Già il lungo viaggio, con il suo senso quasi di impossibilità ad arrivare, è rimasto come uno dei miei temi più ricorrenti. Così anche il mistero derivante da una particolare atmosfera. Come quella che percepii guardando un funerale dove una donna di circa 45 anni precedeva la bara del figlio, portata a spalla da quattro uomini, e cantava in un modo straziante. Seppi dopo che era un lamento funebre. Fu proprio questa visione a darmi la spinta, anni dopo, ad iniziare l’attività documentaristica, che all’inizio era ben lontana dai miei interessi che invece vertevano sul cinema di finzione, soprattutto quando frequentavo il centro sperimentale di cinematografia».
A proposito di cinema, cosa pensa di quello di oggi?
«Ultimamente vado molto poco, ma onestamente non trovo quasi mai il grande cinema che amo immensamente, quello classico, a cavallo tra cinema muto e sonoro. A giugno, però, vado sempre con grande entusiasmo, e con grandi sacrifici considerata la mia età, al Festival del Cinema Ritrovato che si tiene a Bologna, che considero l’unico grande festival che merita di essere seguito».
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