Arcivescovo Satriano, insie
«Direi, con certezza, più speranza che emozioni, perché le emozioni prima o poi passano, mentre la speranza non delude. La Veglia voleva essere solo un segno: la Basilica di San Nicola, gremita di fedeli, nel silenzio orante, ha comunicato a tutti che il popolo di Dio non si rassegna a rimanere fermo dinanzi all’efferatezza della guerra e, tanto meno, a farsi travolgere dall’indifferenza, ma sceglie di ritrovarsi a pregare. Il messaggio è forte e chiaro: la preghiera è il primo e il più importante passo per disarmare la logica della guerra. La guerra si fa uno contro l’altro; la preghiera, invece, mette in moto un dinamismo contrario: l’uno per l’altro. Ed è appunto dalla periferia dell’Europa che la voce degli ultimi sale a Dio in un modo tutto particolare. La periferia, infatti, è frontiera di contaminazione, crocevia di culture, e offre quello spazio di meticciato nel quale la pace può nascere non nella forma di un trattato da stipulare a tavolino, ma come esito naturale di incontri e relazioni quotidiane».
«Il Vangelo è chiaro: la grazia viene dalla Galilea delle genti. È a Nazareth che Dio si fa carne, nella piccola casa di un piccolo paese della Galilea. Imparare a guardare la storia dalla parte dei poveri ci aiuta a comprendere la verità su ciò che accade intorno a noi. Certamente le situazioni di povertà sono così diverse fra loro che richiedono risposte ben ponderate e calate nella vita reale e nei bisogni concreti delle persone. I poveri non sono una categoria sociale; i poveri sono persone con nomi, volti, vissuti che vanno innanzitutto ascoltati. Essi sono uno spazio teologico, uno spazio dove Dio si manifesta e si rivela. Tendere una mano all’altro nella sua solitudine, offrire anche solo l’ascolto come via di uscita dall’isolamento, vuol dire già ridimensionare sensibilmente la sua povertà. Dietro ogni povertà materiale, infatti, c’è sempre una povertà relazionale più sotterranea e radicata. Oggi registriamo in particolare una profonda povertà educativa. Le famiglie fanno fatica a ritrovare la loro vocazione di grembi generativi. Non solo si mettono al mondo pochi figli, ma soprattutto non si mette nei figli una vera passione per il mondo. Dobbiamo intraprendere, come comunità cristiana, un “corpo a corpo”. Il povero va toccato, accolto, amato, ascoltato, accompagnato».
«La parrocchia non è un centro servizi, liturgici e sociali, ma una comunità di cercatori di Dio. Se prendiamo sul serio questa vocazione della parrocchia, il povero non è un incidente di percorso, ma un “crocevia” imprescindibile, perché, bussando alla porta della comunità, mentre chiede aiuto egli offre anche il tesoro più prezioso: il volto stesso di Cristo povero. Nella prossimità agli ultimi, la Chiesa trova Cristo e se stessa. Ma gli ultimi non sono solo coloro che chiedono l’elemosina alla porta delle nostre chiese. È povero anche il giovane che non riesce a camminare con le sue forze e che si vede costretto ad appoggiarsi ai genitori senza poter spiccare il volo. Ricco delle sue idee, ma privo di mezzi, impossibilitato a esprimere il suo potenziale, egli impoverisce non solo se stesso, ma anche la comunità che non potrà godere dei frutti della sua realizzazione. Per questo come diocesi di Bari abbiamo pensato di istituire un fondo di microcredito per sostenere alcune situazioni di povertà non nella logica dell’assistenzialismo, ma del sostegno a una progettualità che sappia promuovere i valori, le relazioni, e che sia gravida di futuro. Allo stesso tempo stiamo implementando la Pastorale Universitaria, spazio di ascolto e di accompagnamento possibile per tanti fuori sede. Tessere legami, stringere relazioni, riparare il tessuto sociale lacerato da tutto ciò che ci divide (sia esso una pandemia o una guerra) è la base necessaria sulla quale costruire un futuro davvero inclusivo. Si tratta di re-esistere, ovvero tornare a vivere, restituendo un’umanità ricca di valori alti, quelli che vengono dal Vangelo, sapendo rifuggire la logica dello scarto, miope e autodistruttiva, nella quale spesso ci dimeniamo, consapevoli che a furia di scartare gli altri, prima o poi arriverà qualcuno che scarterà anche noi».
«Credo che un popolo che ha ricevuto in dono il mare come frontiera non debba mai stancarsi di scrutare l’orizzonte, così come ci ha insegnato a farlo, con sguardo di amore, il padre misericordioso nella parabola del Vangelo di Luca. Quell’uomo ogni giorno saliva sul terrazzo della sua casa nella speranza di veder ricomparire la sagoma di suo figlio. Il Vangelo ci provoca a riconoscere in coloro che sbarcano non degli stranieri che arrivano, ma dei fratelli che tornano. Alla geografia politica, fatta di confini da difendere e territori da distinguere, dobbiamo contrapporre una geografia esistenziale nella quale la comune appartenenza all’umanità possa contare più di qualunque distinzione culturale, storica o razziale».
«Innanzitutto i giovani non vanno demonizzati, mai. Anche quando manifestano segni di disagio essi ci rimandano a specchio le nostre responsabilità mancate. Tra i giovani si incontrano storie intrise di bellezza, generosità, servizio, donazione di sé che non conosceremo mai se continuiamo a guardarli a distanza, come se fossero una categoria astratta. Mettiamoci accanto a loro, cominciamo a condividere i loro ambienti di vita, senza paura, ma soprattutto senza giudicarli. Le dipendenze, le devianze non sono mai il risultato di iniziative deliberate, ma sono forme di compensazione dei vuoti, delle risposte arrabbiate, come affermavo prima, a un mondo adulto lontano, indifferente, che ha rinunciato alla sua missione di educare, di accompagnare, di far crescere. I giovani non vanno affrontati in uno scontro generazionale, ma affiancati in nuove alleanze nelle quali tutti possiamo comprendere che siamo dalla stessa parte. Siamo chiamati a metterci accanto sapendo condividere il nostro tempo con loro».
«C’è già molta sinergia con le istituzioni e sono certo che questo dialogo è destinato a crescere ancora: è desiderio di tutti. La terra di Bari, consacrata a San Nicola e benedetta dalla presenza delle sue reliquie, ha nell’accoglienza il suo destino. Questo territorio e la sua gente saranno sempre più se stessi quanto più saranno accoglienti, perché da sempre siamo una porta aperta verso l’oriente. La guerra distrugge non solo le case di mattoni, ma anche quelle fatte di relazioni. Per questo la pace – come ha detto il Card. Matteo Zuppi l’altra sera – è l’unica scelta di senso che possiamo fare e che non possiamo più rimandare».
«Auguro a tutti di riscoprire in questo Natale un dono grande, che tutti abbiamo, ma che mettiamo da parte e disperdiamo con troppa superficialità: il tempo. Un tempo che ha come vocazione la speranza. Come scrive Vaclav Havel, “la speranza non è ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno”. Ecco, che il Natale ci veda operosi, come diceva don Tonino Bello, capaci di “organizzare la speranza”, sempre pronti a metterci in discussione, in cammino, uscendo dai porti dove vegetiamo – affermava Mounier – e disposti a salpare verso la stella più lontana senza badare alla notte che ci avvolge. Auguri».