Macron: ora superiamo le paure e moralizziamo la vita pubblica

Macron: ora superiamo le paure e moralizziamo la vita pubblica
di Mario Ajello
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Lunedì 8 Maggio 2017, 07:15
dal nostro inviato Mario Ajello
PARIGI Lo scenario è da monarchia repubblicana. C'è Macron, il Ciclone Emmanuel, che festeggia sul palco nella spianata del Louvre la più sconvolgente e fulminea marcia di conquista della presidenza che la storia francese abbia mai vissuto. E arriva qui, in mezzo a migliaia di bandiere tricolori e della Ue, dopo aver pronunciato nel suo quartiere generale il discorso della vittoria, dopo aver parlato lungo il tragitto in auto con Angela Merkel, e sembra già perfettamente calato nei panni di chi sente «la responsabilità di difendere la Francia e l'Europa». Cammina da solo, accompagnato solo dalle note dell'Inno alla gioia, in un percorso che sembra non finire più, lungo questa spianata che è la più maestosa e di Parigi, e il suo è un ingresso regale e di estrema compostezza istituzionale.

NEI PANNI DA STATISTA
È serissimo, già nei panni da statista, e si capisce che gli servirebbe il sostegno immediato della moglie Brigitte che lo aspetta sotto il palco e poi commossa ci salirà insieme a figli e nipoti mentre la folla scandisce il suo nome. E il suo bacio è alla mano di Emmanuel, in una sorta di rituale monarchico, insieme affettuoso e solenne. «La Francia ha vinto», sono le prime parole di Macron. E ancora: «Chi credeva che non ce l'avremmo fatta non conosce la Francia. E invece abbiamo vinto con il coraggio della verità. Ma adesso ho bisogno di voi per le elezioni legislative». E «vi servirò con amore sulla base del nostro motto: liberté, egalité, fraternité». Mentre Parigi è invasa da gente che canta la Marsigliese, sul suo palcoscenico al Louvre il più giovane e imprevedibile presidente che la Francia abbia mai avuto quasi può accarezzare la statua berniniana di Luigi XIV, il Re Sole a cavallo, che è a tre metri dal suo microfono e anche la piramide di Francois Mitterrand fa da cornice al ciclone pronto a entrare all'Eliseo. La bellezza della Francia sta nelle persistenze monarchiche nel sistema repubblicano, in questa sorta di noblesse d'Etat impensabile in Italia, e chissà se Macron saprà sviluppare in chiave nuova questi caratteri. Se insomma gli riuscirà il secondo miracolo, insieme a quello di ricucire la Francia («Mi batterò con tutte le mie forze contro la divisione»), che sarà quello di darle una governabilità tutt'altro che scontata. Ha dimostrato comunque Macron che i prodigi gli riescono. In un anno vissuto avventurosamente, in questo spazio brevissimo ma già storico da quando ha fondato il suo progetto e ha deciso di scalare la République, l'enfant prodige della neo-politica né di destra né di sinistra ma ibrida e mescolata, questo personaggio pop e istituzionale, liberal-modernista e movimentista, volto nuovo ma insieme classico esponente delle élites, ha preso tra le mani con il suo trionfo i destini della Francia stanca di tutto e dell'Europa ripiegata su se stessa. E adesso, «in gioco c'è la nostra civiltà, il nostro modo di essere liberi». Lui si è preso la libertà di cancellare il bipolarismo tradizionale, rompendo ogni steccato. È diventato presidente come Pompidou, a sua volta ex banchiere Rothschild, ma prima di diventare un ciclone, Emmanuel è stato una eccellenza della super scuola di alta amministrazione dell'Ena, socialista, ministro nel governo Valls, studente liceale innamorato della sua prof con 24 anni più di lui e ora première dame.

«RESPONSABILITÀ»
La parola «responsabilità», la più anti-demagogica che esista, è quella che gli piace di più. E così, «mando un saluto responsabile e repubblicano a Marine Le Pen». E parla di «fiducia» e di «speranza» nella notte dell'incoronazione. Mentre i giovani in piazza, altro che pantere grigie da italo-gazebo, questa è una rivolta generazionale che sarebbe piaciuta ad Albert Camus («Mi rivolto dunque siamo»), non fanno che inneggiare al «progressismo che ha fermato l'oscurantismo». Il Ciclone Emmanuel è quello che incarna un progetto politico e di rifondazione culturale («Dobbiamo riprendere il filo del grande romanzo francese», ha detto anche ieri sera) che parrebbe somigliare a una macroscopica start up. Eccolo, calato nella parte di statista pragmatico e visionario, mentre promette: «Stupiremo il mondo». E Brigitte: «Non farò il vaso di fiori, non sono un tipo ornamentale». Semmai, loro due si considerano apripista di una Francia ancora una volta rivoluzionaria (Rivoluzione è il titolo dell'autobiografia del nuovo presidente) ma strapiena di fragilità e di incognite sul dopo.

LA CULTURA
Macron non è come Mitterrand, che citava Il Principe a memoria e sognava di scrivere come Flaubert. Ma da allievo del filosofo Paul Ricoeur, studioso di Aristotele e di Machiavelli, l'ex golden boy della finanza internazionale, che ha conquistato l'Eliseo tramite una rupture inclusiva però delle eccellenze, è convinto come il suo maestro che il senso vero del progresso sia legato alla cultura: «Perché la cultura è più grande di noi e ci permette di uscire da noi stessi». Ma sa anche, Macron, che non sarà facile riportare la politica all'altezza del pensiero. Intanto in questa piazza giovane e ineditissima, volto di un Paese a suo modo solido anche nel malessere, mix di disciplina repubblicana, senso dell'identità e apertura mentale, si intona l'lnno alla gioia, e questa meglio gioventù è quella che non ha paura di dire: «Noi andiamo a governare, perché siamo i migliori». La Francia in festa è quella che vuole annullare un destino nazionale che pareva irrefrenabile e che molti a cominciare da Macron (il quale adora la poesia e il suo prediletto è Paul Eluard: Sono nato per conoscerti / Per chiamarti / Libertà) sintetizzano negativamente con i versi di Yeats: I migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori / sono pieni di appassionata intensità. Ora, bisogna cambiare registro. È una Francia laboratorio questa Francia. In cui convive il giovane neolaureato alla Sorbona il quale sotto il palco spiega che «vanno ridotte le diseguaglianze» e il suo amico convinto, non in contraddizione con l'altro, del fatto che «bisogna pensare a forme di detassazione per i ricchi». E il 900? Adieu.
Questa è una Francia nemica dell'ideologia e del disincanto. Arci-sicura di poter governare la globalizzazione. E per la quale contano le riforme e la libertà anche economica, ma in un liberismo alla francese in cui lo Stato rimane attivo. È un neo popolo, questo, che parla la lingua di Macron per esempio quando egli osserva: «Non ho paura di dire che l'egualitarismo non mi piace». Prediligono il talento e il merito. Parteggiano per la fine dell'ideologia dei diritti «spesso privi - parola del leader - di contenuti, diritti a credito che vengono spacciati per progresso e sono invece finto progresso che serve ad annichilire il valore solido dei doveri».

LA TRADIZIONE ILLUMINISTA
Il Ciclone Emmanuel è quello che per ora ha rimesso a posto gli schemi. I francesi, che sembravano essere diventati passionali, si scoprono invece razionali, secondo la loro tradizione che viene dall'illuminismo. Una razionalità che porta tutti, dentro e fuori da questa piazza, a non nascondersi le difficoltà di governo che avrà Macron. Che per molti francesi è stata una scelta di ripiego. C'è chi, perfino a Parigi, lo ha votato piangendo. Con tutte le sue fragilità, questa sancita dal voto è una rivolta forte e gentile contro i partiti che nella patria del razionalismo non è diventata umore anti-politico. Tutt'altro: «Dobbiamo ricostruire la politica, dobbiamo intrecciare di nuovo il legame tra i cittadini e lo Stato, tra i cittadini e l'Europa», ribadisce Macron. Consapevolissimo che la sua sorte si gioca nella capacità, o meno, di riconnettere élites e masse. In un Paese in cui aristocrazia e sanculotti si sono, lungo la storia, sempre combattuti e a turno hanno vinto gli uni o gli altri, ma ora magari basta. La macromania, che dilaga nella notte parigina, vuole essere la festa della ricomposizione («Vi prego, non fischiate la Le Pen»). E Luigi XIV, a poca distanza da Macron, lo guarda dall'alto del suo destriero. Probabilmente, da patriota, fa il tifo per lui.