La marcia di Trump e il tramonto della “vecchia” democrazia

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 5 Novembre 2016, 16:55
Martedì il mondo intero saprà che direzione politica prenderanno gli Stati Uniti d’America, ancora oggi il paese più potente dal punto di vista militare, economico e culturale del pianeta. Fino a due settimane fa sembrava che l’esito fosse scontato: Donald Trump, inguaiato da affermazioni più che sessiste finite su un registratore, appariva alle corde. Inaspettatamente invece, il capo del FBI ha rilasciato dichiarazioni su una prosecuzione d’indagine federale su un ampio pacchetto di mail del server privato che Hillary Clinton utilizzava con procedura anomala ed erronea. Ciò ha fatto ripartire la corsa di Trump, che appoggia l’azione del FBI e la sostiene con toni sempre più strillati, mentre il Presidente Obama ne ha rilevato la metodologia inusuale e sospetta. Detto altrimenti, anche negli Stati Uniti si manifesta con virulenza la questione del contrasto tra magistratura e politica. L’Italia non è il solo paese dove la dialettica tra poteri è diventata esplosiva. Ora la questione è mondiale, o almeno occidentale.

Ciò probabilmente significa che è in atto un conflitto sui limiti dei poteri istituzionali di natura democratica: il potere esecutivo (i governi) tende a un ampliamento delle proprie prerogative e ad assorbire il potere legislativo al proprio interno – riuscendo spesso a controllarlo attraverso le candidature parlamentari – dando vita a un possibile ircocervo decisionale verso cui il potere giudiziario guarda con timore crescente, riservandosi di intervenire con spregiudicatezza in situazioni che assumono il valore di un’emergenza. C’è anche un’altra chiave di lettura: la magistratura interverrebbe nelle dinamiche politiche perché rappresenta un potere i cui esponenti hanno idee politiche che, nei momenti di primaria importanza, non esitano a trasformare in atti giudiziari. Questo sembrerebbe il sotto-testo delle affermazioni di Obama.

Intanto la campagna elettorale consuma i suoi ultimi giorni: è una gara da far saltare i nervi, una brutta pagina di storia americana e tuttavia emozionante, perché il mondo è in gioco. La sorpresa è senza dubbio Trump: si è presentato come un alleato stravagante e impossibile alle primarie di un partito che – dichiarazioni sue – non sempre ha votato. Eppure è riuscito a scalare il Grand Old Party repubblicano, accusando Obama e la Clinton rispettivamente di incapacità e di corruzione. Lo ha detto anche in tv durante i suoi scontri con Hillary: “Lock her up”, come dire “rinchiudetela (dentro una cella)”. Lei ha fatto i suoi errori e non è riuscita a sminuire fino in fondo l’enigmatica figura del miliardario nei duelli televisivi, ma non è questo il punto. Hillary era fin dall’origine un candidato problematico. La striscia dei due mandati di Obama poteva – al di là del giudizio storico, che non tarderà a formarsi – andare verso uno sbocco moderato oppure verso uno sbocco più radicale. Quest’ultimo è stato incarnato da Bernie Sanders, che ha ben figurato nelle primarie, soprattutto se si pensa che non ha omesso parole forti all’orecchio americano, a cominciare dall’uso del termine “socialismo”. Ciononostante Hillary ha prevalso, negoziando nei fatti il trasporto di una buona dose di idee di Sanders nel programma elettorale poi espresso nei media, per garantirsene l’elettorato. Eppure non si è creata una forte “connessione sentimentale” con il popolo americano. Hillary Clinton è un politico ostinato e di tempra con cui è molto difficile identificarsi: non solo perché nel suo caso serietà e pathos non creano simpatia personale, ma soprattutto perché è già stata al potere e rappresenta il potere. Gli americani avevano bisogno di una candidatura piuttosto dura con l’establishment, perché il mondo della globalizzazione assomiglia a una lunga crisi invece che alle promesse luccicanti del neo-liberismo. E anche di questo, con i vistosi endorsement arrivati dal regno della finanza globale, Hillary Clinton è parte.

Perciò il volitivo imprenditore del mattone e dello spettacolo Donald Trump sta giocando la sua partita fino in fondo: il caso italiano aveva già dimostrato che un tycoon può diventare un capo politico, aderendo alle pieghe dell’immaginario nazionale. In un mondo dove l’intreccio mediatico digitale consente la rifrazione su schermi tv e schermi di cellulare delle figure dirompenti, un famoso miliardario è stato ora in grado di servirsi e di piegare un partito conservatore e di diventare – fatto apparentemente controintuitivo – il punto di riferimento di milioni di elettori impoveriti e arrabbiati, pronti a mandare al diavolo chiunque ricordi loro l’estrema complessità sociale dei nostri giorni o, peggio ancora, una qualche forma di permissivismo. Il rullo compressore dell’estrema insoddisfazione anti-establishment sembra passare sopra ogni altra informazione: tasse non pagate, molestie sessuali, arricchimenti con dubbi metodi, appartenenza di Trump a quell’1 per cento della popolazione americana che nel corso dell’ultimo ventennio si è enormemente arricchita. Attraverso la retorica dell’eccentrico di successo (in parte era accaduto anche a Ronald Reagan, un tempo attore cinematografico) la politica americana deraglia dai suoi binari consueti. Se vince Trump i partiti politici americani saranno da buttare: quello democratico perché incapace di visione strategica, quello repubblicano perché poco o nulla influente nell’elezione del plutocrate. Ne discenderà un magma imprevedibile: molti liberal resteranno per mesi a bocca aperta, e il mondo dei movimenti riprenderà una via radicale e marcatamente anti-governativa. A molti sembrerà di vivere in un film o in un fumetto di fantascienza anni ’90, un mondo dove le agenzie private prendono il posto delle istituzioni e dove il ricorso alla violenza repressiva potrà diventare la norma. Sono ignoti a tutti i modi e i temi che un’eventuale amministrazione Trump porterebbe in politica estera. Il mondo finanziario, che lucra ormai su ogni versante dell’organizzazione umana, sta preparando mosse paraboliche nelle borse mondiali.

Se vince Hillary, i liberal potranno sperare che Trump sia stato solo un fantasma fracassone, e che il sistema democratico tradizionale non sia ancora al capolinea. La valutazione, mescolandosi al sospiro di sollievo di mezzo mondo, sarebbe puro “wishful thinking”. La più violenta campagna elettorale di sempre ci dice che, in ogni caso, le forme democratiche, annunciate da una comunicazione politica sempre più barbara, stanno cambiando in modo turbinoso, e che serve uno sforzo inedito per contrastare una post-democrazia già in avvento.
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