La Sinistra, la crisi e il paradigma della democrazia

di Francesco FISTETTI
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Domenica 20 Marzo 2016, 17:56
La domanda che sempre più spesso nell’Europa di questo primo quarto del XXI secolo è destinata a porsi ad osservatori e studiosi, perché dettata dalle trasformazioni epocali in corso, è: “Che cosa resta della sinistra che ha occupato la scena della società europea e degli Stati nazionali nel ciclo politico aperto dal secondo dopoguerra?”. Parliamo naturalmente di quella storia di lunga durata che, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, ha attraversato il cosiddetto “secolo breve” del Novecento con il protagonismo del movimento operaio organizzato nei partiti socialisti e socialdemocratici e, sull’onda dell’ottobre del 1917, con le rivoluzioni anticoloniali del terzo e del quarto mondo. Dopo l’Ottantanove, che segnò il crollo non solo del muro di Berlino ma dell’ancien régime del comunismo sovietico, la sinistra europea dei partiti socialisti (dai socialdemocratici ai laburisti), ma anche quella che in Italia si è riconosciuta nel popolarismo dei cattolici democratici come la Dc o nel riformismo sui generis di un partito come il Pci, ha perduto progressivamente la sua identità originaria di forza politica capace di governare i cambiamenti. Tanto che oggi quell’interrogativo “Che cosa resta della sinistra?” fa tutto con l’altro, ad esso intimamente correlato: “Che cosa resta della democrazia?”.

Non che, beninteso, siamo scivolati in un regime autoritario o di sospensione delle procedure e delle garanzie costituzionali, che formalmente sono e restano pienamente valide. Ma ciò che forse bisogna valutare con attenzione è il mutamento strutturale che la nostra democrazia di fatto ha subìto una volta che siamo entrati nell’orizzonte della globalizzazione: dico, nostra, con riferimento non solo al nostro paese, ma anche all’Europa (e, seppure in minor misura, agli Stati Uniti). E quando diciamo Europa, non possiamo nasconderci il fatto che quei paesi che un tempo gravitavano nell’orbita sovietica oggi sono quasi tutti retti da governi xenofobi e liberticidi, una sorta di riflesso condizionato nei confronti di quella Russia putiniana che una volta era la patria del “socialismo reale”.

Ma qual è l’ondata del mutamento strutturale che ha investito le democrazie europee e che rischia di ridurre la sinistra, intesa in tutte le sue declinazioni, a forza residuale? Ci sono almeno due livelli di discorso distinti, anche se tra loro strettamente intrecciati. Da un lato, l’ingresso nell’età globale ha comportato una metamorfosi radicale del paradigma democratico: la democrazia ha cessato di essere, per usare un’espressione di Togliatti, “democrazia dei partiti”, nel senso che la vita politica, nel bene e nel male, non poteva prescindere da quei canali di democrazia organizzata che erano i partiti con i loro statuti, le loro regole e i loro rituali. Sul piano parlamentare i partiti rappresentavano, ma al contempo sintetizzavano in modo dinamico, interessi e valori all’interno di un progetto di società e di una visione del mondo. Il consenso nasceva dalla capacità di esercitare un’egemonia culturale e morale. Sul piano dell’organizzazione della vita interna, i partiti, pur con tutti i limiti, erano luoghi di formazione dal basso della volontà politica, di discussione critica e di deliberazione collettiva, i cui orientamenti vincolavano i dirigenti e gli eletti a determinati comportamenti.

La sinistra europea, nell’accezione larga che abbiamo dato a questo termine, è stata quella che maggiormente ha incarnato, seppure secondo tradizioni diverse, questo ideale di “democrazia dei partiti”. Da qui, come ha osservato Francesco Saponaro nel suo articolo pubblicato da questo giornale, le difficoltà che essa incontra nel fronteggiare la situazione presente. Oggi il paradigma democratico deve fare i conti con la crisi di sovranità degli Stati nazionali, con il fatto che l’erosione delle Costituzioni democratiche proviene dallo strapotere detenuto sul mercato mondiale da quei “global players” che sono le multinazionali, i quali ricattano gli Stati nazionali disinvestendo nei paesi considerati economicamente poco redditizi, delocalizzando le loro imprese là dove il costo del lavoro è più basso e rifugiandosi nei paradisi fiscali. Ora, si tratta di prendere atto che sarebbe sbagliato riproporre la forma-partito così come l’abbiamo finora conosciuta, perché sono venute meno le condizioni storiche che ne avevano consentito la nascita e l’affermazione. Tra queste condizioni la principale è stata un modo di produzione fondato sulla credenza, rivelatasi illusoria, di una crescita infinita delle forze produttive. In breve, il paradigma democratico del secondo dopoguerra, fino all’Ottantanove, si è alimentato del mito dello sviluppo: un mito, si badi bene, che ha determinato effetti di realtà straordinari, perché ha significato prosperità, ricchezza e mobilità sociale per la stragrande maggioranza delle popolazioni, specie dei meno abbienti.

Nel momento in cui questo mito dello sviluppo si è infranto mostrando anche i suoi lati perversi in termini di catastrofi ecologiche e di costi umani insopportabili (diseguaglianze crescenti, congestione urbana, degradazione delle città, insicurezza, precarizzazione del lavoro, migrazioni, mali personali imputabili a cause sociali, ecc.), il vecchio paradigma democratico è andato in frantumi, perché bisognoso di essere radicalmente ripensato e riadeguato. Ponendosi alcune questioni-chiave: 1) rivitalizzare l’ideale democratico collocandosi nella prospettiva epocale di una “prosperità senza crescita” o di una prosperità ad un tasso di crescita che non potrà mai più attingere i livelli del passato. Ciò significa imparare ad elaborare da parte delle classi dirigenti e nel senso comune una “cultura del limite”; 2) disegnare i tratti di una società post-crescita, in cui generalizzare forme di vita demercificate, improntate a sobrietà, risparmio, circuiti economici virtuosi (agricoltura rurale che ricorra all’agrobiologia e alla permacultura, forme di artigianato locale, valorizzazione di produzioni territoriali, allevamenti di fattoria o bio, ecc.). È evidente che questi circuiti alternativi, affiancati all’economia sociale e solidale, istruzione, trasporti pubblici, ecc.). Solo dando una risposta a queste questioni, la forma-partito potrà essere ridefinita proficuamente, altrimenti sarà condannata sempre più a degenerare nel lobbysmo dei comitati di affari e della corruzione. Come si vede, la strada per ridisegnare i lineamenti di una nuova democrazia è lunga e rischiosa, ma soprattutto passa attraverso la presa di coscienza culturale che ci troviamo di fronte ad un passaggio di civiltà senza precedenti.
 
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