Meglio il voto che dare vita a pastrocchi indigesti per la città

Meglio il voto che dare vita a pastrocchi indigesti per la città
di Claudio SCAMARDELLA
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Sabato 14 Ottobre 2017, 12:47 - Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 19:28
La sentenza del Tar sull’assegnazione del premio di maggioranza, anche dopo il primo stop di ieri in attesa dell’udienza di convalida della sospensiva e del giudizio di merito del Consiglio di Stato, apre uno scenario completamente nuovo nel governo della città. Sulla sua natura, sulla sua efficacia e sulla sua durata. E se, come appare molto probabile, la sentenza sarà confermata anche nel “secondo grado”, questo scenario potrebbe diventare una realtà non più contestabile da qui a poche settimane, vale a dire a meno di cinque mesi dall’inizio della consigliatura e a più di quattro anni e mezzo dalla sua naturale conclusione. Da qui bisogna partire. Il tempo non può essere una variabile indipendente rispetto alle scelte e alle decisioni che dovranno essere prese dalla politica nel caso di un avallo definitivo dell’anatra zoppa. Eppure, a giudicare dalle reazioni di gran parte degli esponenti delle “due maggioranze”, l’impressione è che non se ne tenga debitamente conto. Quando si ricorre a formule astruse o a ossimori in voga nel politichese - “senso di responsabilità”, “bene della città”, “opposizione collaborante”, “sostegno esterno” - si sente puzza di bruciato.

Fuor di metafora, il rischio - anzi la certezza - è che dietro quelle formule si celino, nemmeno tanto velatamente, le convenienze attuali degli schieramenti e gli interessi personali dei singoli interpreti della politica locale, anche in proiezione dell’imminente battaglia per le elezioni nazionali. Legittimi, per carità. Ma non per questo coincidenti con le convenienze e con gli interessi della città e dei leccesi.
Il sindaco Salvemini ha precisato il percorso che intende seguire, indicando una sorta di “parlamentarizzazione” della crisi. Andrà in Consiglio per un discorso programmatico rivolto all’intera aula e vedrà se sulle sue intenzioni avrà una maggioranza convincente per proseguire. Percorso corretto, a tre condizioni. La prima: le dichiarazioni programmatiche non vanno “annacquate” per catturare consensi validi solo sulla carta o per lanciare segnali di fumo a due o tre consiglieri che potrebbero passare da uno schieramento all’altro. Lecce, come abbiamo più volte scritto su queste colonne, è una città in cammino, attraversata da un forte processo di trasformazione che sta producendo nuovi ceti sociali, nuovi bisogni, nuove domande di governo e nuove aspettative dalla gestione delle istituzioni pubbliche. E ha di fronte a sé nuove e impegnative sfide - socio-economiche, urbanistiche, sulla qualità dei servizi, nella mobilità e nella cultura - per compiere definitamente il salto da “paesone di provincia” a “città europea”. Ha bisogno perciò di un governo omogeneo, lineare, capace di avere una visione strategica coerente e di assumere decisioni nette, di compiere scelte precise, anche impopolari ma dentro un disegno generale di città e di capoluogo del Salento. Ha assolutamente bisogno di un governo e di una maggioranza con l’orizzonte temporale di cinque anni. Produrre un’accozzaglia di idee per tirare a campare e per una prolungata gestione dorotea di Palazzo Carafa sarebbe solo un’operazione dannosa e poco trasparente. Proprio per questo, da Salvemini ci si aspetta in Consiglio un discorso programmatico netto, a tratti anche radicale rispetto alle cose che intende fare se resterà al governo della città. Se otterrà una chiara maggioranza, bene. Prosegua e realizzi le cose annunciate. Altrimenti lasci. Conviene anche a lui non restare nel limbo perché l’ipotesi di un lento logoramento in trattative e condizionamenti è tutt’altro che peregrina, anzi rientra nei giochi della tattica politica.
Seconda condizione: il verbo votare non può e non deve far paura. A nessuno. Ed è davvero strano che siano qui gli esponenti del centrodestra ad essere i più cauti, se non i più restii a una simile prospettiva, quando a livello nazionale dal ‘96 ad oggi esiste una sterminata letteratura berlusconiana, ma anche leghista, sui presunti “golpe” quirinalizi che avrebbero sottratto la parola al popolo sovrano e consentito governi con manovre di palazzo (evidente sgrammaticatura costituzionale in una democrazia parlamentare). Dall’altra parte, suona altrettanto strana l’idea che si fa avanti in alcuni ambienti del centrosinistra, secondo cui bisogna fare di tutto per non interrompere la “sfida del cambiamento” e la “svolta avviata”, una sorta di giacobinismo di ritorno. Aver paura di far decidere i cittadini, temere di tornare all’opposizione dopo appena quattro mesi di governo equivale ad ammettere, implicitamente, che quella “sfida” e quella “svolta” poggiano già oggi su basi fragili, figurarsi senza una maggioranza chiara e netta in Consiglio. Tornare al voto darebbe, invece, la possibilità alla città di sciogliere l’intricato nodo che essa stessa ha creato nel giugno scorso, anziché lasciarlo dipanare ai giudici amministrativi o ai consiglieri di frontiera tra uno schieramento e l’altro. Quattro mesi fa sono emerse dalle urne due indicazioni contrastanti. Tra sei candidati, i votanti di Lecce hanno scelto e voluto Salvemini come sindaco, e chi ancora impreca per i voti disgiunti e si appella alla categoria del “tradimento” (che in politica non esiste) dovrebbe farsene finalmente una ragione e cominciare a ragionare di politica. Al tempo stesso, i votanti di Lecce non hanno creduto e non hanno dato la maggioranza (dunque, la fiducia) alla rappresentanza consiliare che avrebbe poi dovuto sostenere Salvemini nel governo per cinque anni. Non c’è proprio nulla di male richiamare la città a sciogliere questo nodo, magari nella finestra più ravvicinata di una tornata elettorale nazionale.
Terza condizione: non pensare, come pure si sente in queste ore in diversi ambienti, che il Consiglio comunale sia un semplice orpello dell’architettura amministrativa locale, necessario e indispensabile solo per l’approvazione del bilancio. Al di là dei poteri reali che conferisce la legge, la rappresentanza consiliare è la somma delle anime, degli interessi e delle volontà dei cittadini. In una sola parola, è lo specchio - nel bene e nel male - della città, anche più della giunta. Pensare di governare senza tenerne conto e limitarsi al coinvolgimento del Consiglio solo per gli adempimenti previsti dalla legge sarebbe un suicidio politico e segnerebbe un’ulteriore frattura tra la politica e la società. Anche per questo, ci è sembrata alquanto singolare la precisazione fatta ieri mattina da Salvemini, prima ancora della decisione del Consiglio di Stato che di fatto ha reintegrato temporaneamente la funzionalità dell’assise consiliare fino al giudizio di merito. Il sindaco ha tenuto a far sapere che a Palazzo Carafa gli uffici funzionano regolarmente, che l’attività non è ferma e che non c’è alcuna paralisi, anche se Consiglio e commissioni - prima della notizia giunta da Roma - erano stati bloccati. Allora, ripetere giova: il Comune non è soltanto il sindaco con la sua giunta. Piaccia o no, il Comune è anche il Consiglio. Sia quando si è all’opposizione sia quando si è al governo.
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