Il maschio e la reazione violenta dopo la fine di un amore

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 4 Giugno 2016, 14:20 - Ultimo aggiornamento: 8 Giugno, 21:08
L’amore non è un’istituzione sociale. È un sentimento, cioè una disposizione d’animo di un essere umano verso un altro essere umano. Si tratta tuttavia di un sentimento potente, che cambia la percezione e il modo stesso di vivere, e in questo senso si pone tra le situazioni esistenziali che danno vita e forma al mondo. I recenti e gravissimi omicidi di giovani donne a opera dei loro ex-compagni rivelano un inatteso retroterra di violenza nelle relazioni amorose eterosessuali.
Gli uomini protagonisti di questi atroci fatti di violenza sul corpo delle donne si dimostrano incapaci di accettare la fine di un amore. Essi non appaiono in grado di gestire il carico di sofferenza che aleggia sul declino di una relazione e scelgono azioni punitive - spesso irrimediabili - contro il proprio oggetto d’amore. Gli uomini che uccidono o feriscono o sfregiano o rendono impossibile la vita alle loro ex-donne dimostrano esattamente questo: che nella loro mente è preferibile giungere alla follia omicida invece che fare i conti con un’occorrenza inscritta indelebilmente nella relazione sentimentale.
E cioè che essa possa finire. L’eternità non è infatti un’aspettativa del tutto saggia nei confronti delle relazioni sentimentali. L’amore è un legame che può essere sciolto in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, e da parte anche di una sola tra le due parti. Non si può obbligare ad amare. Nemmeno se il partner ha dichiarato più e più volte nel passato (non necessariamente remoto) di amarci. Nemmeno se nella prima fase della relazione ha riempito di dolci lettere la corrispondenza intima, nemmeno se le emozioni provate con lui sono state straordinarie, nemmeno se con il partner si ha la certezza di aver provato felicità, e che essa fosse comune. Nemmeno se con il partner si è fatto un figlio, o più di uno. Se il partner avverte che il sentimento è cambiato e che la parola “amore” non fa più parte del lessico della coppia, allora all’altro partner non resta che la dignità di elaborare un’assenza. Se una donna lascia un uomo che invece continua ad amarla, l’uomo deve rassegnarsi e prenderne atto. Invertendo la situazione, nel corso della storia le donne lasciate dai maschi hanno dovuto rassegnarsi ad essere ripudiate, associate ad altre mogli, persino scacciate o rinchiuse in convento. Fuor di letteratura, ben poche donne hanno adottato una reazione scomposta e terrificante di fronte al maschio che non le voleva più.
Ora che la storia ha lavorato nel senso che ci appare strategicamente più giusto – vale a dire facendo cadere in molti campi le discriminazioni nei confronti delle donne e ammettendo per loro diritti uguali a quelli dei maschi – appare in tutta la sua pericolosità l’assenza di difese psicologiche dei maschi rispetto alle dinamiche possibili dell’amore. Perdonando le generalizzazioni insite in ogni discorso che coinvolge tutti, perché il maschio tende a una reazione estrema quando viene lasciato da una donna? Quali incredibili insicurezze vengono a galla e quale carica di violenza si innesca nel momento in cui il maschio assiste al cambiamento del sentimento amoroso della donna nei suoi confronti? Vi è chi addossa una parte di responsabilità allo stato di crisi economica, che destabilizzerebbe l’autostima in particolare in chi è ritenuto il centro del dinamismo capitalistico, vale a dire nel maschio adulto. La spiegazione appare debole. Le generazioni che sono nate nel boom economico sono del tutto interne all’idea che sia i maschi sia le femmine si assicurino il reddito attraverso il lavoro, e la crisi economica colpisce in realtà – tra i giovani – soprattutto le donne. La spiegazione va ricercata piuttosto in motivi che attengono all’immaginario collettivo e dunque all’antropologia culturale. I maschi italiani non hanno avuto un’autentica educazione sentimentale sostitutiva di quella delle generazioni precedenti. Il ’68 è stato un tornado che, per qualche tempo, ha squinternato i rapporti tra le classi e tra i generi, ma è arduo dimostrare che i maschi abbiano tratto tutte le conseguenze necessarie dalle ondate di lotta femminista cui hanno assistito a partire dagli anni ’70. L’autocoscienza femminista, a quelli che all’epoca andavano a scuola o all’università, pareva una pratica strana e anomala, dove il discorso pubblico diventava intimo e si infilava nelle contraddizioni tra teorie e pratiche effettive, una delle quali erano le relazioni uomo-donna. Ci fu persino un breve attimo in cui qualche militante si azzardò a proporre una sorta di versione maschile delle pratiche di autocoscienza, riunioni semi-clandestine denominate di “autocritica maschile”. Dopo la prima riunione non ce n’era una seconda: i maschi non possedevano il vocabolario per parlare in pubblico d’amore, di sentimenti, di gerarchie sessuali, di liberazione dalla fissità dei ruoli. Tornando ai nostri tempi, la costruzione mediatica del maschio e della femmina non è tranquillizzante: alla persistenza di stereotipi estetici e di cliché che sembrano ancora guardare alla televisione sessista degli anni ’80 si sono aggiunti nuovi fenomeni, come la presenza di personaggi maschili “fragili” nelle fiction e un maggiore protagonismo femminile nella conduzione delle news e dei talk. Troppo poco per rappresentare un’autentica inversione di tendenza nei ruoli e quasi nulla sul piano di un ripensamento profondo dell’amore proprietario, che si occulta nelle trame psicologiche di base del maschio medio e che dà vita non soltanto a delitti efferati, ma a una più generale sensazione di paura e di insicurezza nella vita di milioni di donne. Per quale motivo, nel 2016, una donna dovrebbe sentirsi in pericolo per il solo fatto di tornare a casa da sola di sera o di notte? Per quale forma di distorsione sociale una donna che cammina per i fatti propri dovrebbe sentirsi apostrofare da sconosciuti maschi con apprezzamenti non richiesti o con battute da quattro soldi? Per lo stesso motivi per cui i maschi non sanno accettare di essere lasciati dalla propria donna. Il retaggio del potere universale maschile sul mondo è duro da smaltire: le sue tossine si fanno più violente proprio nella fase del declino, che è quella dei nostri giorni. Ogni maschio di buon senso dovrebbe concepire come orribile anche solo l’idea di praticare violenza su un corpo femminile, comprendendo in questo comportamento anche la violenza verbale sulla giovane e bella ragazza che passa per strada. Certamente un’educazione ai sentimenti proposta fin dalle scuole potrebbe aiutare i giovani a orientarsi in modo meno cieco nelle relazioni tra i generi. Ma, nel frattempo, i maschi che restano turbati dai femminicidi devono fare il primo passo.
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