Le sfide da affrontare per un piano strategico del Salento

di Renato MORO
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Giovedì 30 Gennaio 2020, 14:31 - Ultimo aggiornamento: 21:30

Cosa sarà di queste province tra vent’anni? Cosa avremo programmato, progettato e attuato per superare il gap nei confronti del Sud - noi che siamo a sud del Sud - e del resto del Paese e dell’Europa? Cosa avremo proposto alle nuove generazioni per fermarne la fuga al Nord o all’estero?
Non ci sono le sfere di cristallo e questo è uno dei pochi punti fermi. Però ci sono i cervelli, le idee da coltivare e sviluppare. E c’è la consapevolezza che noi saremo quello che oggi programmiamo di diventare.
L’Università del Salento è stata chiamata a progettare il piano strategico unitario dell’area jonica salentina. In altre parole ha avuto l’incarico di mettere in campo forze e idee per disegnare un futuro comune per Brindisi, Lecce e Taranto. Per dare a questo territorio, ad ogni provincia, la possibilità di far fronte comune. Per affermarsi, per crescere, per vendere i suoi prodotti immateriali e materiali. Chiamarlo Terra d’Otranto, questo territorio, è una sorta di errore storico (la Terra d’Otranto è stata ben altro); chiamarlo Grande Salento è improprio perché ciò implicherebbe l’esistenza di un Piccolo Salento (quale?) e perché risulterebbe indigesto a quella parte delle province che nel Salento non si identifica.
Ma questo poco importa, perché proprio il nome della porzione di Puglia che dovrà beneficiare di quel piano strategico è l’ultimo dei problemi da affrontare.
Gli ostacoli sono altri. Innanzitutto quello che si frappone sistematicamente tra ogni tipo di annuncio e la trasformazione di esso in qualcosa di concreto. L’intesa tra i sindaci dei capoluoghi e il rettore di UniSalento è solo il punto di partenza di un lungo viaggio. Si dovranno individuare gli stakeholder giusti da coinvolgere, si dovrà ascoltare e proporre, assemblare, mettere nero su bianco un percorso da proporre e trovare le sintesi necessarie perché nessuno si senta escluso.
C’è bisogno, per questo, di una classe dirigente disposta a confrontarsi, ma soprattutto disposta a mettersi in discussione. Perché è fin troppo evidente che, se percorso nuovo deve essere, la sua programmazione non può essere affidata in via esclusiva a una classe dirigente fin qui dimostratasi - nel complesso - restia a rinnovarsi. La stessa, va detto, in qualche modo corresponsabile dello stagno magmatico in cui il sud della Puglia si è impantanato. E siccome il gattopardismo nella terra dello scirocco è perennemente in agguato, un confronto e un dibattito veri non potranno non coinvolgere risorse nuove, giovani non solo anagraficamente, non necessariamente salentine. Il punto di rottura è qui: se si saprà guardare oltre le barriere culturali e sociali che questo territorio custodisce e protegge in nome delle sue intoccabili e immutabili radici, la strada non potrà che essere in discesa.
Un apporto importante non può non venire dagli immigrati. La Puglia e il Salento nei prossimi anni avranno una popolazione indigena con un’età media molto più alta rispetto a quella di oggi. Troppo complesso analizzare qui le cause, quel che importa ora è che gli anziani saranno sempre di più. Di contro le comunità di immigrati continueranno a crescere e le nuove generazioni - i ragazzi che ora studiano con i nostri figli - saranno a tutti gli effetti salentine oltre che ovviamente italiane. Intelligenze di cui non possiamo più fare a meno e che devono essere coinvolte in ogni discorso che abbia a che fare col futuro. Nei giorni scorsi a Lecce è stata salutata con soddisfazione l’elezione del consigliere aggiunto a Palazzo Carafa in rappresentanza delle comunità straniere. Inserire quella figura nello statuto comunale fu il frutto di un’intuizione che il sindaco Adriana Poli Bortone ebbe nel Duemila. Vent’anni fa, un’infinità in un mondo che viaggia con la velocità dei byte. Oggi un consigliere aggiunto privo dei poteri che qualificano gli altri consiglieri non ha ragione di esistere. Oggi questo territorio deve pretendere che gli immigrati partecipino attivamente al processo di sviluppo.
Immigrazione, integrazione, intercultura sono tutti concetti che prefigurano uno sguardo aperto all’esterno. Ed ecco un altro aspetto che nel dibattito propedeutico al piano strategico deve rappresentare un punto fermo. L’unico futuro possibile è quello che vedrà questo territorio padrone di una giusta collocazione su uno scenario nazionale, europeo, internazionale. Concetti come lo stesso Grande Salento e Regione Salento sono destinati a essere superati se non lo sono già. E il nord della Puglia non può essere un nostro avversario, la nostra concorrenza. Semmai dev’essere il nostro alleato più prezioso. Una nuova classe dirigente salentina e pugliese deve puntare a questo, non a perseguire arroccamenti antistorici e antieconomici.
Non basta farsi in quattro per recuperare il tempo perduto e dotare finalmente il territorio di una superstrada che colleghi Lecce a Taranto come lo è già collegata Brindisi. Non bastano un paio di banchine in più nei porti o una pista in più negli aeroporti. Abbiamo invece bisogno di una classe dirigente con idee, attributi e capacità tali che non ci facciano più perdere l’appuntamento con la Via della Seta di turno. Che sappia creare le condizioni perché le nostre aziende possano colmare l’attuale distacco rispetto alle regioni ricche di infrastrutture. Che sappia trovare il modo, ma questo è solo un esempio, di sfruttare le enormi potenzialità che da qui ai prossimi anni sapranno esprimere le popolazioni asiatiche, più ricche di noi, in termini di mobilità per turismo o studio.
Imprescindibile, in un progetto di sviluppo unitario, è il binomio turismo-ambiente. E qui c’è tanta materia sulla quale confrontarsi per mettere in campo le idee giuste. Taranto e Brindisi soffrono di una situazione particolare dovuta alla presenza dell’acciaieria più grande d’Europa e della centrale a carbone, a loro volta legate a dinamiche dipendenti da centri decisionali lontani dal territorio. Almeno per Cerano, comunque, in un futuro non tanto lontano è prevista la riconversione a gas. Ma l’arretratezza infrastrutturale presenta altre criticità che un piano di sviluppo non può ignorare. Tra tutte una gestione da terzo mondo della questione rifiuti, con un territorio ancora oggi violentato da un abbandono indiscriminato e vergognoso, e una dotazione del tutto inadeguata di depuratori che mette a rischio la salute del mare. Salvo, poi, commuoverci alla vista di una piccola foca monaca giunta per errore fino ai nostri lidi.
La questione rifiuti, si è visto in quei casi che hanno interessato la magistratura, chiama in causa spesso un’altra grossa criticità: l’illegalità diffusa. Che futuro può avere un territorio in cui la criminalità continua la sua attività di penetrazione nel tessuto sociale ed economico? È qui il nodo più difficile da sciogliere. Non sarà un bravo procuratore, né un bravo poliziotto, ad assicurarci un futuro diverso. È una questione di cultura. E nella prateria che qui si apre abbiamo ancora molto da esplorare e molto da studiare.
 

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