La fragilità della democrazia del leader

di Stefano CRISTANTE
4 Minuti di Lettura
Sabato 2 Aprile 2016, 19:28
Il politologo è uno scienziato sociale ad alta specializzazione: spiega il cambiamento generale attraverso le evoluzioni dei sistemi elettorali, dei partiti politici e delle costituzioni, questioni spesso di rara complessità. Il politologo deve avere competenze storiche, giuridiche, sociologiche; ma, se vuole farsi leggere da un pubblico non di nicchia, deve puntare a condensare le sue ricerche in volumi agili, non accademici. È ciò che fa da tempo con abilità Mauro Calise. Il suo ultimo lavoro, “La democrazia del leader” (Laterza, 2016, 157 pagine di piccolo formato), si legge in un pomeriggio.

Le tesi principali di questo saggio/pamphlet si possono riassumere così: 1) i partiti politici hanno garantito per cinquant’anni prosperità e sviluppo al nostro paese; 2) la loro funzione ideologica si è però progressivamente indebolita, mentre invece si rafforzava la loro propensione all’illegalità e alla corruzione; 3) Tangentopoli doveva rappresentare una svolta progressista nell’organizzazione politica e invece l’innovazione è venuta da destra, con il berlusconismo; 4) al Cavaliere è interessato più mantenere il proprio impero mediatico garantendosi copertura politica che provare a mettere mano a riforme serie; 5) dopo vent’anni in cui l’anti-berlusconismo è stato l’unico cemento a sinistra è sorto l’astro di Renzi, che ha inaugurato una prassi di fatto presidenzialista.

Secondo Calise le democrazie occidentali vanno tutte in questa direzione. Perché? Per appoggiare questa tesi il politologo abbraccia con passione lo studio dei media. Per molti anni la televisione e gli altri mezzi di massa sono stati poco considerati dagli strateghi dell’Occidente: il nome di McLuhan era quello di un signore eccentrico che sosteneva che il medium stesso fosse il messaggio. In realtà, per anni e anni (e ancora oggi in ambienti attardati) si è ritenuto che fondamentale nei media fosse il contenuto trattato, e non la forma assunta da quel determinato contenuto nello schiacciasassi informativo. La tv, inoltre, mal sopporta più di un volto nell’inquadratura: non è un medium per veicolare pluralità, ma singolarità. La tv sarebbe, secondo Calise, un mezzo spontaneamente presidenzialista. Si dimentica però che molti sistemi politici si sono spostati verso il presidenzialismo ben prima della diffusione della tv: quello statunitense, tanto per fare un esempio, emerse prima che i giornali diventassero una consuetudine diffusa. Quindi in realtà i media di massa vanno sommati alla propensione politica di un determinato contesto. La cosiddetta “spettacolarizzazione della politica”, che è unanimemente riconosciuta a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, riguarda tutta la politica, e non solo il leader.

Il gioco seduttivo tra giornalista e leader negli schermi televisivi è solo uno dei tanti giochi che ci sono stati proposti nell’ultimo trentennio. Ma l’ipotesi di Calise è che ormai non ci sia nulla da fare: l’approdo nazionale verso una forma di governo incentrata sul “presidente” è secondo lo studioso ineluttabile, come dimostrerebbero i sistemi politici più evoluti. Perciò si metta l’animo in pace chi ancora crede alla riformabilità dei partiti e dei corpi intermedi: inutile attendere resurrezioni della Prima Repubblica. Da qui nasce il consenso del politologo per la capacità di Renzi di forzare il ruolo del premier: Calise legge il fatto quasi come un’anticipazione della figura di un vero Presidente, dominus di un potere esecutivo con rinnovati e aumentati poteri. C’è, nel ragionamento di Calise, un’aura di inevitabilità che sorprende: non per mancanza di coerenza logica, ma per la granitica convinzione di trovarsi dalla parte “giusta” dell’interpretazione della storia. Il leader, in questo senso, è anche l’approdo politologico di una lunga disamina sulle nostre leggi elettorali e sulle occasioni sprecate a cominciare dalla fantasmatica Commissione bicamerale presieduta tanti anni da D’Alema e affossata da Berlusconi.

Da Craxi a Renzi, Calise racconta inoltre come il leader abbia smesso di essere un primus inter pares e sia diventato un soggetto a sé stante, prima decisionista e minoritario (Craxi), poi addirittura inventore e proprietario di un partito (Berlusconi) e infine capo del partito e capo del governo, egemone assoluto in entrambi, come Renzi. C’è qualcosa anche sui 5 Stelle e su Grillo, ma sono osservazioni di poco momento. Non rientra infatti nel ragionamento di Calise cogliere i legami tra società italiana e moltitudini, sottolineare come l’andamento del nostro paese risenta della pochezza programmatica dei leader (la cosiddetta “visione”) totalmente inadeguati di fronte alla rovinosa caduta delle classi popolari dentro il vortice di una crisi che appare inestinguibile.
Concentrandosi sulle relazioni interne al potere e ai suoi assetti, il ragionamento di Calise non può che tralasciare i nodi della partecipazione dei cittadini e di come ripensare complessivamente la politica nel nostro paese. La speranza, per il politologo, è che la leadership monocratica possa intercettare un nuovo dinamismo organizzativo, vivificato da una nuova consapevolezza comunicativa. Insomma, saremmo di fronte all’esigenza di un nuovo Principe, che sarebbe comunque preferibile al caos indotto dai populismi anti-sistema.

Lo stesso Calise, concludendo il suo pamphlet, scrive tuttavia che la “democrazia del leader” è fragile. I leader non sarebbero capaci di “soddisfare l’alto livello di aspettative che le loro campagne populiste hanno creato nell’elettorato”. Elementi “populisti” si manifestano perciò anche nel modernissimo Principe, che tenta di aggirare la pressione mediatica diventando egli stesso un medium onnipresente, sovraesposto e tracimante, costretto a farsi largo a spallate tra i fatti di un mondo che ogni giorno dispensa tragedie di portata epocale. Una presenza continua il cui potere tranquillizzante sembra un bene effimero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA