Il digitale e il rischio dell'eterna veglia

di Stefano CRISTANTE
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Venerdì 23 Ottobre 2015, 20:11 - Ultimo aggiornamento: 25 Ottobre, 21:26
La vita di una persona accompagna la vita del pianeta per un piccolo tratto, e in questo piccolo tratto il pianeta continua nel suo flusso, nel suo tempo. Perché gli esseri umani hanno inventato le immagini? Per fermare il tempo, perché il tempo è il vero limite degli esseri umani, la nostra vera risorsa scarsa. Ecco allora che le immagini assumono un fortissimo significato di riscatto esistenziale, interrompendo il flusso del tempo attraverso un riconoscimento di intensità che chiamiamo emozioni.



Siamo noi a provarle e siamo noi a sfidare il tempo dando rilievo solo ad alcuni momenti del suo flusso, su cui operiamo attraverso nostri strumenti. Parole come tecnica e arte sono fondamentali per capire la necessità di un’alterazione del tempo, e ciascuno le ha sotto gli occhi e le usa di continuo nella propria personale ricerca delle immagini e nella loro selezione. La tecnica e l’arte circondano la nostra vita quotidiana. Noi ancoriamo alla memoria oppure registriamo le immagini delle emozioni perché vogliamo ostinatamente offrire un significato alla nostra vita.



Oltre alle immagini, c’è una seconda e altrettanto antica reazione simbolica: il tentativo di imbrigliare il tempo fornendogli nomi diversi (anni, secondi, mesi, millenni, ore) e frazionandolo oltre l’infinitesimo, nell’illusione di bloccare il flusso nel quale si spalancherebbe l’assenza di significato. Ecco perciò anche il motivo per cui sono stati creati gli eventi: per consentire al tempo misurato e alle emozioni provate di incontrarsi in un punto e in un luogo, attraverso cui lenire e insieme controllare il flusso del tempo e la perdita di significato dell’umano a esso conseguente. Il perfezionamento di queste barriere anti-temporali è stato uno dei più brillanti brevetti spirituali dell’umanità. Ora però le cose si complicano. In primo luogo esiste un’industria specializzata a fornire e a riprodurre tutta la gamma delle emozioni umane (possiamo chiamarla “industria del senso”). In secondo luogo non abbiamo più a che fare con un’industria del senso (arte, intrattenimento, informazione, sport) che conta su tecnologie analogiche.



La nostra tecnologia è digitale, e si adatta a tutte le forme di cattura e selezione di immagini significative. Il digitale fa vivere le foto, il cinema, la rete, i mezzi di trasporto, la televisione. Il digitale ha un impatto formidabile sul modo di creare gli eventi. Mentre le diverse generazioni precedenti hanno tentato con un certo successo di rallentare il tempo lavorando sulla specializzazione delle emozioni e con gli strumenti di precisione della logica, ora l’alternativa digitale viaggia comprimendo spazio e tempo (aumentando la velocità) e ripristinando la natura del flusso. Il digitale moltiplica le immagini, moltiplica la possibilità di produrre emozioni, moltiplica il flusso.



Quindi ci riporta inevitabilmente all’inabissamento del nostro significato: siamo solo in due modi, o dentro o fuori dal flusso del tempo. Zero - Uno. Le tante estensioni del digitale ci riportano a un continuum perenne: il presente non ha più rivali, dopo un post su Facebook i commenti seguitano a venire, per poi trasmigrare altrove, senza sparire né finire sepolti da qualche parte. La tv mostra immagini 24 ore su 24. Il telefono – specie di maggiordomo multimediale – è sempre acceso, attor giovane di un teatro dove il computer è il nuovo sovrano da usurpare.



Ogni religione ha creato uno spazio di protezione per interrompere il flusso del tempo, dotando gli esseri umani di un nuovo ambito di introspezione: lo shabbat per gli ebrei, la domenica per i cristiani, il venerdì per i musulmani. Un luogo dove staccare, riconquistando al proprio interno il senso delle cose, persino ridando un significato all’assenza dell’umano, accettando di riflettere sulle mille diramazioni cognitive rappresentate dalla finitezza del nostro mondo. Ecco un altro potente antidoto alla perdita di significato: non la religione in sé ma il momento di astensione dal flusso che contiene. Ma nei social network, nella tv e nel computer non c’è shabbat, né domenica, né venerdì: tutto ciò che è permeabile dal flusso diventa flusso, i modi di chiamare il tempo – anni, giorni, trimestri – perdono di senso, ogni giorno è il compleanno di qualcuno, il telefono da polso ci avvisa attraverso Linkedin che tanti amici aspettano le nostre congratulazioni per un nuovo impegno professionale. L’idea stessa della pausa, che ci aiutava metabolizzare ogni evento importante della nostra vita – vittorie e sconfitte, lutti e festeggiamenti – tende a sparire nel gorgo del continuo.



Esiste un unico confine che l’antropologica digitale non ha ancora varcato, quello tra sonno e veglia. Lavorando attraverso l’inconscio, l’organismo riesce a spezzare la continuità del flusso, resistendo alle lusinghe del tempo attivo. Non sappiamo in effetti quali possano essere i limiti di una persona nello scaricare nella veglia il sacrificio del sonno. Quante ore in meno potremmo dormire senza compromettere il nostro organismo? È evidente che l’individuo che interessa l’industria del senso è quello sveglio e attivo: quello dormiente non consuma nulla. Stanno uscendo alcune monografie sulla riduzione del sonno tra gli umani (si veda il recente lavoro di Jonathan Crary, 24/7, il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi) e circolano nella stampa e su internet immagini e servizi sui lavoratori addormentati sul posto di lavoro o in autobus, soprattutto dove l’ideologia dell’attività perenne ha più attecchito, come in Giappone e in tutto il sud-est asiatico. L’individuo ottimale per la nuova civiltà del flusso digitale è colui che si abbandona senza remore, rinunciando a una consapevole selezione delle emozioni e delle immagini e rischiando l’abisso del significato. Intendiamoci: uso il termine digitale non per attaccare una tecnologia prodigiosa ma l’ideologia di coloro che la cavalcano senza la remora di poter incrinare la già fragile umana costituzione.



Proprio perché è prodigioso il digitale va trattato con cura, e vanno sviluppate dal suo interno delle contromisure per non importare la sua natura tecnologicamente continua nella nostra natura, affogando l’umanità in una corsa insensata verso un’eterna veglia che ha le forme di una nuova e potentissima alienazione. Chi dorme non piglia pesci, diceva il proverbio. Chi dorme non è nel flusso, dice l’industria del senso. Forse tra non molti anni (o mesi? O secondi? O millenni?) dormire sarà una forma di ribellione.

Stefano Cristante