Un'etica per i contemporanei: a tu per tu con Umberto Galimberti

Umberto Galimberti
Umberto Galimberti
di Luca NOLASCO e Mariapia GRECO
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Mercoledì 18 Ottobre 2023, 21:31 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 05:00

«Voglio essere libero, libero come un uomo. Vorrei essere libero, come un uomo. Come un uomo appena nato, che ha di fronte solamente la natura, che cammina dentro un bosco, con la gioia di inseguire un’avventura». L’incipit del capolavoro musicale di Giorgio Gaber e Sandro Luporini “La libertà”, che proprio quest’anno compie cinquant’anni, introduce molto bene “L’etica del viandante”, l’ultimo libro del filosofo e psicanalista Umberto Galimberti, che è stato docente di Antropologia culturale, Filosofia della storia, Psicologia generale e Psicologia dinamica all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Umberto Galimberti a Galatina


Galimberti sarà nel Salento, a Galatina, venerdì 27 ottobre e nei locali della Cantina Fiorentino alle 19 presenterà, per la prima volta in Puglia, questo suo ultimo libro. L’opera si articola in cinque parti ed è una vera e propria “summa” del pensiero dell’intellettuale di adozione veneziana. In esso sono contenuti gli elementi filosofici peculiari frutto di un’infaticabile ricerca che ha animato il dibattito culturale a partire almeno dalla seconda metà del ‘900.
Per Galimberti, l’Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana.

Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. La cultura greca è tragica: l’“etica del limite” è l’orizzonte di vita; quella giudaico-cristiana è animata da speranza: la fiducia e l’ottimismo nel futuro permea la vita terrena delle persone avendo la promessa (anche) dell’al di là. 

Al di là di incanto e disincanto


Galimberti ribadisce che oggi viviamo completamente immersi nell’età della tecnica. È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. Così come è finito anche il disincanto dei moderni che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine. La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non disvela la verità: la tecnica funziona. L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza. Il mondo è ora regolato dal “fare” come pura produzione di risultati. Non a caso il mito greco aveva incatenato Prometeo; l’Occidente ed il Cristianesimo, due facce della stessa medaglia, lo hanno scatenato. Emblematiche sono, a tal proposito, le parole di Emanuele Severino riportate nell’opera del 1998 “Il destino della tecnica”: «Come può l’etica impedire alla tecnica che può di fare ciò che può»?


Oggi la tecnica non è più un mezzo ma un mondo. Afferma inequivocabilmente Galimberti a tal proposito: «Con il termine “tecnica” intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede il loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. La razionalità tecnica consiste nel conseguimento del massimo degli scopi con l’impiego minimi dei mezzi. Nonostante la sua apparente semplicità, questa razionalità è la più alta e la più stringente razionalità mai raggiunta nella storia».
In questo contesto, infatti, Nietzsche fa annunciare al folle la “morte di Dio” che determina il profilarsi di ciò che egli chiama nichilismo. Cosa significa che Dio è morto? Non certo chiedersi se Dio esiste o non esiste, come avviene nella domanda metafisica abituale. Significa, piuttosto, se Dio fa ancora mondo oppure no. Dice il folle di Nietzsche ne “La gaia scienza”: «[…] Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».
Galimberti ricorda che Nietzsche, all’annuncio della morte di Dio, fece seguire un altro annuncio molto importante per una più completa e complessiva comprensione del “secolo breve”: «Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui, il più inquietante fra tutti gli ospiti?». Per il filosofo tedesco, il nichilismo è la conseguenza della morte di Dio perché la storia ha perso ciò che l’ha resa possibile il giorno in cui ha attribuito al tempo un disegno di salvezza e quindi un senso.

Alla ricerca di un'etica possibile


A questo punto l’unica etica possibile, afferma Umberto Galimberti, è quella del viandante: «Se la tecnica non ci consente di pensare la storia inscritta in un “fine”, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura “processualità” che, come il percorso del viandante, non ha in vista una meta. […]Non più il “dovere” che prescrive il “fare”, ma il “dovere” che deve “inseguire” e fare i conti con gli effetti già prodotti dal “fare”. Ancora una volta è l’etica a dover rincorrere la tecnica e a doversi confrontare con la propria impotenza prescrittiva».
A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade si fa carico dell’assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità: come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Oggi l’uomo sa di non essere al centro. 


L’etica del viandante si oppone all’etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia il nostro modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Chiosa Galimberti: «L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora».
In questo scenario si muove il “viandante della filosofia” che invita il lettore a compiere un percorso di vita ponendosi dalla prospettiva dei greci antichi che - ancora oggi - sanno insegnare che non conta mai tanto la meta, l’obiettivo, l’approdo quanto la “meraviglia” del viaggio. E forse solo così - da nomadi del pensiero – riusciremo a recuperare l’urlo demonico di socratica memoria che oggi non siamo più in grado di accogliere.

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