Tra poesia e scultura Luisa ritrova le origini

Tra poesia e scultura Luisa ritrova le origini
di Carmelo CIPRIANI
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Mercoledì 8 Settembre 2021, 05:00

Se non fosse per quella ‘p’ al posto della ‘s’, “Lupiae” sarebbe quasi l’anagramma di “Luisa Elia”. Una casualità, ma assai suggestiva. L’artista di origini leccesi residente da quarant’anni a Milano, torna nella sua terra, omaggiandola con una mostra che parla di sé e delle sue origini, capace altresì di evocare i tempi della memoria e della materia, tra volumi e poesia. Un percorso introspettivo con cui l’artista s’identifica, a cominciare dal titolo “Lupiae”, antico nome con cui i romani avevano denominato il capoluogo salentino.

Nelle sale del Must di Lecce

Allestita in una sala al primo piano del Museo Storico della Città di Lecce (Must), l’esposizione raccoglie nove lavori recenti realizzati dall’artista durante la pandemia, prima nello studio di Milano, poi in quello di Lecce. A curarla l’artista ha invitato Giorgio Verzotti, docente universitario e curatore di lungo corso (tra le sue esperienze più significative l’attività curatoriale presso il Castello di Rivoli e il Mart di Trento e Rovereto, oltre alla curatela della retrospettiva di Lucio Fontana del 1987 al Centre Pompidou di Parigi e la mostra “Futuro, Presente, Passato” in occasione della Biennale di Venezia del 1997). Nate come reazione alla condizione di isolamento, le opere, disposte sulle pareti, sul pavimento e finanche sospese, sono il frutto di un processo di introspezione che ha dato origine a forme e versi.

La mostra segue la personale allestita dall’artista nello spazio PaePa di Milano nel 2019 e con quella condivide l’allestimento in un ambiente unico, da opera d’arte totale. Simile a un libro composto da racconti sciolti, allo stesso modo la mostra leccese si può fruire liberamente, senza un ordine predefinito. Una volta entrato lo spettatore è avvolto dalle sculture, disposte in un ordine che rasenta il disordine, perfetta parafrasi del cosmo. La libertà di fruizione è attestata anche dai testi che l’artista ha dedicato alla madre, i quali oltre a costituire un ulteriore elemento identificativo/introspettivo, spiegano le sculture, rivelandole suggestioni di dati momenti, lavori memoriali che dal racconto del sé si aprono ad un discorso generale. Non semplici descrizioni ma confessioni attraverso cui l’artista condivide con il pubblico riflessioni, ricordi d’infanzia, spaccati del suo vissuto, passati e presenti.

Un percorso dal pavimento al soffitto

In una lettura ascensionale del percorso espositivo, che dal pavimento sale sino alla volta, una delle tante possibili, si parte dalle opere adagiate al suolo: “Orme” e “Rime petrose”. Fusioni in gomma composte da più elementi, sculture antimonumentali che si frantumano nello spazio. La prima è una scultura in progress, iniziata nel 2012 e oggi (forse) conclusa con gli ultimi tre tasselli su cui si legge la frase “io sono zoppa”. Dietro l’ironia del verso si cela la volontà dell’artista di porsi in diretta relazione con tutta una serie di sculture dichiaratamente dedicate all’idea di movimento, da “L’uomo che cammina” di Rodin a “Passi” di Luciano Fabro, fino all’omonima opera installativa di Alfredo Pirri. Il legame è soprattutto con Fabro, artista conosciuto da Luisa Elia e da lei considerato un maestro, l’antesignano di una scultura autenticamente antieroica e antiretorica.

Anche in “Rime petrose” tra i grumi ocra, si scorge un verso tratto da una poesia dell’artista, una delle poche scritte in dialetto, che in italiano recita “Sono seduta ma mi sembra di ballare e il nero mi pare giallo”. Parole che, oltre ad alludere alla fatale incompiutezza dei saperi umani, fanno dell’opera la testimonianza di un preciso momento, vissuto in solitaria, tra gioie e dolori. Un verso lo ritroviamo anche in un’altra opera, anzi ne costituisce il titolo: “Il giorno è blu come la notte”, con evidente allusione alla condizione di isolamento vissuta durante il primo lockdown. La scala cromatica dell’azzurro è la sola ammessa. Un lavoro esistenziale, che l’artista pone in parallelo per cromia e condizione emotiva, al periodo blu di Picasso, nata, come racconta lei stessa, da una precisa esperienza biografica, simile ad una folgorazione: uscita di casa in piena pandemia, sul portone vede riflessa la sua ombra allungata, una figura di giacomettiana memoria che le rivela la condizione d’isolamento in cui il genere umano è momentaneamente costretto a vivere. Alle pareti si dispongono le altre opere in tela di juta, in bronzo, in terracotta invariata ma soprattutto in gomma, materiale che porta con sé l’idea di una durezza reversibile, scelta dall’artista per la sua duttilità e la sua contraddittoria resistenza. Opere realizzate a Milano e disposte in mostra in linea retta, a definire multiformi e policromi orizzonti.

Nelle sue opere Luisa Elia trasferisce il suo corpo, asseconda il flusso di pensiero e blocca con la materia l’energia del gesto. Ad interrompere l’orizzontalità dell’allestimento è l’opera “Tre colonne”, alta quanto l’artista, un’antropometria realizzata a Lecce con i materiali del Salento: terra, sabbia e sale.

Non solo le materie ma anche l’andamento concavo-convesso parla della sua terra, rievocando le sinuosità barocche delle chiese e degli edifici. La scultura, scandita in elementi quadrangolari, rievoca la modularità dei minimalisti. Ma mentre questi frantumano le loro sculture ripetendo lo stesso modulo o attuando minime variazioni interne in andamenti puramente geometrici, Luisa Elia asseconda i suoi intenti poetici, variando il modulo e concependo sculture con propensioni arcaiche, generatrici di un’atemporale ancestralità.

Conclude la visita nella prescelta visione ascensionale “Discus Lupiae”, un disco traforato, simile ad un grande merletto irrigidito; un nuovo disco solare che si muove nello spazio e che si lascia attraversare da esso. Sculture multiple, composte in totale da 150 elementi, che insieme delineano una mostra pervasiva ma votata alla leggerezza.

L’esposizione del Must rappresenta per Luisa Elia un ritorno a casa. Fatta eccezione per l’intervento del 2017 al Castello Carlo V, l’ultima mostra nella sua città risale al 1996, anno in cui tenne una personale nel maniero leccese. Introdotta tra gli altri da un testo di Pierre Restany, l’artista in quell’occasione donò alla sua città otto sculture in legno e carta realizzate tra il 1986 e il 1990. Quella odierna è una mostra doverosa, che bene ha fatto il Comune a promuovere, rendendo merito ad un’artista di pregio, dotata di un linguaggio proprio e di una specifica linea di ricerca, sempre coerente e sempre attuale.

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