Diversi ma non troppo: la solidarietà linguistica tra Salento, Calabria meridionale e Sicilia

Diversi ma non troppo: la solidarietà linguistica tra Salento, Calabria meridionale e Sicilia
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 28 Febbraio 2021, 12:37 - Ultimo aggiornamento: 15:50

La solidarietà linguistica che collega Salento, Calabria meridionale e Sicilia (territori dell'estremo sud della nostra penisola) viene percepita dai parlanti di queste regioni e anche dai non locali. Un amico rientrato da Messina mi riferisce, con un certa sorpresa, che in quella città ha ascoltato suoni e parole coincidenti con quelli del suo dialetto salentino. Ha ragione, l'affinità linguistica è reale. Un altro amico napoletano tempo addietro mi raccontò che, appena arrivato in Salento, era rimasto colpito da un costrutto sintattico frequente nella parlata di un suo collaboratore salentino. Questi, che fittiziamente chiameremo PincoPallino, cominciava sempre le telefonate dicendo «PincoPallino sono». E all'interlocutore napoletano, non abituato a questa struttura, veniva in mente per analogia l'attacco telefonico «Montalbano sono» dei libri e della serie televisiva di grandissimo successo. Aveva ragione, i dialetti salentino, calabrese e siciliano antepongono spesso il soggetto al verbo e, più in generale, hanno molti tratti in comune.
Nel 1977 il glottologo padovano Giovan Battista Pellegrini, riprendendo lavori di studiosi precedenti, trasferì su una cartina la classificazione dialettale del territorio italiano; in quella rappresentazione cartografica ad aree linguisticamente simili corrisponde identico colore. Le grandi partizioni dialettali italiane sono le seguenti: dialetti settentrionali, toscano, dialetti centro-meridionali, dialetti meridionali estremi, sardo. La cartina di Pellegrini mostra in maniera lampante la solidarietà che lega Sicilia, Calabria meridionale e Salento, caratterizzate da oggettiva parentela linguistica. Le cause della netta differenziazione tra dialetti salentini e dialetti barese e foggiano (nella nostra regione) e tra dialetti calabresi del sud e del nord (in Calabria) sono legate, molto probabilmente, alla storia di questi territori, segnati dalla presenza secolare di bizantini al sud e di longobardi a nord, in entrambi i casi. La Sicilia, fortemente ellenizzata fin dall'epoca preromana e non toccata dalla dominazione longobarda, è (relativamente) unitaria.
Le tre aree di cui parliamo presentano molti tratti coincidenti. Sono molte le parole comuni (a volte non esclusive, sempre caratterizzanti): ampudda, mpudda, bollicina, eruzione cutanea', arienu, rienu origano', bizzoca, birzocca bigotta; donna timida; monaca', birloccu, bbilloccu ciondolo per il collo, medaglione', cuddura, cuddura cull'ovu ciambella, pane pasquale di forma circolare', ecc. Dunque, se osserviamo le cose dal punto di vista strettamente linguistico, non esiste una specificità del solo Salento, esiste una più vasta area meridionale estrema accomunata da antiche e profonde ragioni storiche.
Questo naturalmente non impedisce che i parlanti salentini riconoscano nel dialetto uno dei tratti costitutivi della propria identità, misurabile sia in rapporto ad altri dialetti, sia in rapporto all'italiano. Spesso gli elementi di matrice locale si allargano fino al contesto nazionale, caratterizzano un prodotto e indicano una peculiarità del territorio. Si pensi a parole meridionali entrate nell'italiano come rustico, frisella, o alla triade dialettale che, con funzione di slogan, campeggia sulle magliette («Salentu. Sule, mare, ientu»). Se invece il dialetto è sentito come un marchio di inferiorità da dissimulare o da abbandonare, se prevalgono manifestazioni di ostracismo antidialettale, il transito di forme locali verso l'italiano è impossibile. Tutto dipende dalla autocoscienza della propria identità e dall'attaccamento individuale e collettivo alla stessa. Il dialetto è sicuramente, insieme ad altre manifestazioni, un tratto identitario della comunità.
Anche in forme nuovissime. Il ricorso ai dialetti segna una parte non irrilevante della produzione cinematografica ambientata nella nostra regione, indipendentemente dal luogo di nascita dei registi. Si pensi all'assunzione del dialetto (e dell'italiano regionale piuttosto marcato) in registi quali Winspeare, Valenti, Piva, Ozpetek, Cristina Comencini (ai quali va aggiunto il caso un po' strano di Rubini, che fa parlare personaggi salentini con il dialetto apulo-barese). Alcune loro opere sono corredate da sottotitoli in italiano, quasi a segnalare l'incomprensibilità da parte del pubblico non locale della varietà parlata sullo schermo. In questi film il dialetto assume la funzione di rappresentare una realtà quotidiana difficile ma vera, abbandonando forse in via definitiva il connotato di veicolo dell'umorismo di basso conio che caratterizzava il filone grassoccio, erotico soft, di molti film degli anni Ottanta del Novecento, dove il dialetto barese (anzi canosino, di Canosa di Puglia), parlato da Lino Banfi, caratterizzava linguisticamente il protagonista, un po' buffo e molto simpatico. Tradiscono il perdurante rifiuto di accettare la propria identità le proteste, diffuse in rete proprio mentre scrivo, da parte di coloro che lamentano l'inserimento di parole e frasi del dialetto barese nella prima puntata di «Lolita Lobosco», serie televisiva ambientata a Bari, andata in onda domenica 21 febbraio.
Nelle canzoni il dialetto può diventare il mezzo per esprimere attaccamento ai luoghi, difendere i tesori tradizionali della cultura e della civiltà, rivendicare le proprie radici. Alla pizzica, musica accompagnata da danza e canto (in dialetto salentino e in grico), tradizionale del Salento, arride gran successo anche fuori dai circuiti locali (emblematica la «Notte della taranta» che, grazie alla amplificazione televisiva, raggiunge milioni di spettatori). Una delle canzoni più note dei Sud Sound System (gruppo salentino che combina ritmi stranieri e sonorità locali, mettendo insieme musica giamaicana, dialetto locale e ballate di pizzica) si intitola Le radici ca tieni. Cantando in dialetto difendono la propria terra e le tradizioni di essa con finalità rinnovate rispetto al passato: non più rassegnazione ma spirito di riscatto, rispetto dei valori propri e altrui. «Se nu te scerri mai de li radici ca tieni / rispetti puru quiddre de li paisi lontani. / Se nu te scerri mai de du ede ca ieni / dai chiù valore alla cultura ca tieni».
Canzoni e film non bastano, dice qualcuno. Forse a ragione, bisogna fare di più. Ecco una proposta operativa. Istituzioni, politici, cittadini si mostrino capaci di progettare iniziative di dimensione internazionale e di impatto popolare, all'altezza della storia di questa terra: sagre sì, ma anche altro. Progetti ambiziosi, scendano in campo le idee. Il recupero dei dialetti rappresenta una difesa delle biodiversità culturali a rischio d'estinzione e anche un volano per progettare il futuro. Le memorie e le tradizioni non si cancellano, possono trovare spazio nel mondo attuale. E convivere con la modernità, senza conflitti. Il dialetto non è sottostoria. Chi lo pratica, chi lo studia, chi vuole tenerlo in vita, deve trattarlo con rispetto.
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