L'intervista/Fabrizio Barca
«Il Pd impari ad aprirsi di più»

L'intervista/Fabrizio Barca «Il Pd impari ad aprirsi di più»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 9 Giugno 2013, 19:24 - Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 11:15
LECCE - In Puglia per un blitz in tre tappe: ieri Bari, oggi Maglie e Martina Franca. Al suo fianco l’assessore regionale Guglielmo Minervini. Il tour di Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione territoriale nel governo Monti, imbastito su un documento che propone la ricucitura della fibra Pd, lacerata e sfilacciata.

Professore, qual è la fotografia che col suo tour sta scattando dei territori, e del Pd sui territori?


«Grandi potenzialità delle risorse umane, un quadro di conoscenze e competenze estramente diffuso nel Pd, persone che hanno capacità per dire cose rilevanti nei processi decisionali. Altro elemento, il numero di circoli che già tentano un’operazione di mobilitazione cognitiva. Ero già certo che il processo partecipativo che descrivo nel documento fosse presente nella pancia del Pd, ma gli esperimenti non mancano: ci sono circoli che hanno individuato delle tematiche anche abbastanza rilevanti e ne hanno fatto oggetto di confronti aperti anche alla cittadinanza e ad associazioni caparbiamente indipendenti».

Eppure l’isolamento delle periferie, nel partito, resta strutturale.

«Sì, è anche vero che queste esperienze restano lì, non trovano ascolto nella struttura del partito o nell’amministrazione di riferimento. Sono esperienze solitarie».

Il Pd che lei immagina sembra essere comunque radicalmente diverso da quello attuale. Propone una rivoluzione? E come concilia i concetti che lei invoca, cioè apertura e struttura solida?

«Bisogna recuperare alcuni profili tipici di qualunque organizzazione che ha bisogno di una struttura: una presenza continuativa di persone che dedichino tempo al partito. Questo non vuol dire ripristinare l’apparato, ma immaginare forme di attività temporanea e remunerata per il partito. Insomma: rafforzamento dell’organizzazione e messa in rete delle unità territoriali del Pd, che tra loro non sono collegate. Dall’altro lato però occorre apertura: con una ricchezza di associazioni caparbiamente indipendenti non si può pensare di far rientrare tutto diligentemente nel partito, ma bisogna rendere conveniente affacciarsi al Pd».

Alla luce di tutto ciò, il congresso Pd come va costruito? Sarà in ballo l’essenza stessa del partito.

«Discutendo uno-due temi, uno istituzionale e uno economico-sociale: sarebbe la prima occasione di ripresa di una discussione vera, fuori dai canoni della sola lotta tra persone».

Però i nomi che circolano incarnano idee spesso diametralmente opposte di Pd.

«È la coda di un modo vecchio di ragionare: contrapporre persone prima ancora di capire cosa propongono».

Lei si candiderà alla segreteria?

«Il mio ruolo, se ritenuto utile, passa per una funzione che non prevede la candidatura. Un ruolo di estrazione dalla testa del partito della sua grande ricchezza concettuale, e dalla pancia dei suoi sentimenti».

Sul tema del presidenzialismo il partito, anche stavolta, è spaccato. Come pensa vada impostata la discussione?

«Un problema può diventare opportunità, con un confronto aperto proprio al congresso, discutendo con franchezza, ma con tempi distesi. Sarebbe un modo moderno per discutere. Il presidenzialismo? Una risposta sbagliata che parte da una diagnosi sbagliata, secondo cui la causa dell’ingovernabilità sta nella limitata concentrazione dei poteri. E invece in Italia i poteri sono molto concentrati».

Troppi personalismi nel Pd?

«Li ha patiti sino alla manifestazione insopportabile delle 101 persone che hanno votato contro Prodi. È una lacerazione che scotta e ha portato alle scelte successive».

Cioè le larghe intese: inevitabili?

«Nulla in politica è inevitabile. È una scelta precipitata a seguito di quella decisione sul Quirinale: il Pd si è rimesso nelle mani di un garante accentandone le conseguenze».

Al congresso dovrebbero votare solo i tesserati?

«Un’associazione deve limitare l’elezione dei propri organi dirigenti ai partecipanti. Se poi questi siano iscritti o simpatizzanti, non è così fondamentale. Insomma: il voto non spetta a uno che si affaccia per caso un giorno, vale anche per i tesserati non partecipanti».

Il professor Cacciari ipotizza una scissione del Pd tra liberali e socialdemocratici, anche perché - sostiene - «non vedo cosa unisca Barca e Renzi». Ecco, qual è il collante?

«L’errore è associare i due nomi a socialdemocrazia e liberalismo in modo rigido. Il mio documento invece unisce argomenti forti della tradizione liberale (concorrenza e merito), di quella social-comunista (lavoro e giustizia), con un elemento cardine della tradizione cristiano-sociale (l’attenzione alla persona). Non mi sembra il mio modello corrisponda a quella bipartizione, vecchia e superata».

Renzi premier: lei ci sta?

«Dipende dai programmi e dalle idee. È tutto da vedere. Ma su Renzi nessun pregiudizio, anzi: lo trovo solare, sa ispirare i cittadini lasciando intravedere ottime cose. Che però bisogna saper realizzare, e per questo servono le squadre».

Vendola, che lei ben conosce, ha marcato la sua distanza dal Pd: come andrebbe recuperato il rapporto? Se va recuperato.

«Beneficia del non aver avuto lacerazioni interne, dimostrando una compattezza che fa onore al suo partito. In futuro sarà importante che anche in luoghi diversi, come Sel o la galassia dell’associazionismo, la discussione sia non settaria, ma simile a quella che mi aspetto dal Pd. Se riflessioni simili avvengono in luoghi diversi, chi ha più filo tesserà».

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