Interviste/ Ingroia: «Contro la mafia
ora una battaglia globale»

Antonio Ingroia
Antonio Ingroia
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 22 Luglio 2012, 18:15 - Ultimo aggiornamento: 12 Agosto, 19:32
Arriva nel Salento dopo una settimana difficile, intensa: il braccio di ferro con il Quirinale; la proposta dell’Onu per una Commissione in Guatemala. Antonio Ingroia, 53 anni, procuratore aggiunto di Palermo, si gode il sabato pomeriggio a Otranto prima di un incontro pubblico.
Antimafia, il tema. Ci sono da smaltire le tensioni con il Colle per l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia dopo le stragi del ’92, di cui proprio Ingroia è titolare; preparare le valigie per l’incarico proposto dalle Nazioni unite, accettato dal magistrato siciliano in attesa del disco verde del Csm. Tuttavia la voglia di parlare, analizzare fenomeni, inquadrare scenari, non ne risente. Si parte dal futuro. Si approda nel passato. Seguendo le impennate dell’ottimismo e le planate dello scetticismo.

Procuratore, le Nazioni Unite le hanno chiesto di dirigere la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala. Se ne va all’estero?

«Credo di sì. C’è ancora un passaggio da affrontare al Csm: se lì decidono positivamente, si tratterà solo di stabilire i tempi».

L’accettazione del nuovo incarico segue un paradigma logico: se la mafia è internazionale, anche l’antimafia deve esserlo. Ma la frase rivela già uno scarto. È cosi?

«Sono assolutamente convinto che occorra fare un salto di qualità. Sono passati 20 anni dall’intuizione di Giovanni Falcone sulla Procura nazionale antimafia e sulle articolazioni distrettuali. In tutto questo tempo le cose sono cambiate. La criminalità si è globalizzata. Anche la lotta deve farlo».

Partendo da dove?

«Dal potenziamento dell’azione di contrasto su scala transnazionale. L’Italia, che suo malgrado ha esportato la mafia, ora deve portare all’estero anche l’antimafia sotto il profilo organizzativo e strategico. L’azione va pensata, coordinata e attuata a livello mondiale. Bisogna contare su organismi stabili in cui ci si incontra e ci si confronta. Tanto in America quanto nell’Est, europeo e asiatico».

Un fronte internazionale su cui operare. E uno interno da presidiare. Di ieri i dati su un aumento considerevole dell’usura, anche in aree storicamente non in mano alle consorterie mafiose. La crisi trova conforto nell’organizzazione criminale?

«Sono due cose che camminano insieme. La congiuntura negativa agevola l’espansione dell’attività delinquenziale. In questi ultimi anni l’evoluzione del sistema mafioso, dai connotati sempre più finanziari, ha favorito la diffusione dell’usura. Le mafie, non avendo mai problemi di liquidità, ne approfittano per diventare operatori spregiudicati sul mercato del credito».

In un’intervista del 2006 lei disse che abbiamo una “mafia più civile” e una “società più mafiosa”, che ha introiettato i modelli perversi del crimine. Cos’è cambiato?

«Temo che, complessivamente, il quadro sia peggiorato. Certo, ci sono incoraggianti inversioni di tendenza: i giovani, il volontariato, le nuova vitalità dell’imprenditoria e dell’antiracket. Ma ad oggi i modelli prevalenti, mutuati dalla criminalità, sono quelli dell’elusione della legge, della cultura dell’illegalità dilagante, della sovrapposizione degli interessi privati e delle lobbies di potere alle esigenze primarie della collettività. E questo anche con la complicità di certa politica».

I passaggi critici in genere comportano un ripensamento degli stili di vita. Nessun insegnamento dalla contingenza?

«Voglio essere ottimista: forse proprio con l’economia in affanno si comincia a intuire quanto l’illegalità sia una zavorra insostenibile per l’intero apparato economico-produttivo. E lo si capisce dalle direttrici lungo le quali si muove il governo Monti. C’è come un’attesa di cambiamento che si traduce in una spinta alla partecipazione, elemento senza alcun dubbio positivo».

In Puglia e nel Salento la crisi sembra alimentare altre dinamiche. Le ultime indagini parlano di una particolare propensione ad accettare le lusinghe della criminalità, anche per far fronte ai piccoli bisogni quotidiani, atteggiamento che si traduce in un maggior consenso sociale.

«La ricerca del consenso è tipica delle organizzazioni di massa nel momento in cui si fanno fenomeno diffuso. La criminalità pugliese è molto più giovane di quella siciliana. Il mafioso non ha più bisogno di cercare il consenso. Per essere più precisi: in Sicilia si è passati dal consenso duraturo e diffuso alla fase del terrore nel momento in cui l’organizzazione ha iniziato a perdere presa per l’incalzare di un’evidente opposizione. Così oggi la mafia agisce sulla leva della convenienza economica».

Se questa è l’evoluzione storica, vuol dire che Puglia e Salento si trovano a vivere una fase di svolta: il consenso come saldatura sociale di un fenomeno non più percepito come corpo estraneo?

«Ho paura di sì. E in questo molto meglio di me ha argomentato il procuratore distrettuale antimafia Cataldo Motta. Ma da quello che percepisco per quanto ho visto e letto, è indubbio che la criminalità locale viva un momento di crescita qualitativa particolarmente preoccupante».

Un centinaio di giovani, italiani e stranieri, seguono con “Otranto legality experience” un percorso di conoscenza dei fenomeni mafiosi. Su quali argomenti puntare per coinvolgere le nuove generazioni?

«Più delle parole valgono gli esempi. Testimonianze di cittadini che si sono impegnati, dai grandi magistrati ai giovani come Peppino Impastato. La loro uccisione non è la loro sconfitta, ma semmai quella di un’Italia incapace di sostenerli. Ecco: credo che occorra un Paese più solidale intorno a percorsi da condividere».

Le frizioni col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per l’attribuzione di competenza circa l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e, sullo sfondo, alcune telefonate intercettate tra Nicola Mancino, all’epoca ministro dell’Interno, e il Quirinale: l’attrito non rende sfocata proprio l’immagine di un’Italia unita e solidale?

«Vivo questo momento con dispiacere istituzionale e personale. Istituzionale, perché credo che in momenti così difficili non faccia bene al Paese qualsiasi forma di conflitto, anche solo giuridico. E personale, perché ho sempre apprezzato il presidente Napolitano e le sue prese di posizione. In genere, non sono molto ottimista riguardo alla storia del nostro Paese, piena di stragi e fatti gravissimi su cui nella migliore delle ipotesi si è arrivati a mezze verità. L’Italia non è matura per affrontare di petto alcune questioni cruciali: tranne alcune eccezioni, ha un rapporto difficile con la verità. Ma negli ultimi anni si sono fatti molti passi avanti: sono scettico sulla possibilità di arrivare a fare piena luce su fatti e circostanze tragiche e dolorose; ma sono soddisfatto perché negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione che ha squarciato muri di silenzio e omertà. Tuttavia, solo il concorso di cittadini, istituzioni e politica potrà consentire di raggiungere i risultati sperati. Nessuno escluso».

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