Lagioia: «Questo virus è un messaggio dal futuro, l'annuncio di un cazzotto»

Lagioia: «Questo virus è un messaggio dal futuro, l'annuncio di un cazzotto»
di ROSARIO TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Domenica 26 Aprile 2020, 16:30 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 20:16
Alla fine, quando si ferma dopo quindici minuti e trenta secondi coperti con un’unica emissione di voce, un filo ininterrotto di parole, e giusto per prendere fiato prima della nuova scorribanda sonora, solo allora capisci all’istante un po’ di cose, tutte assieme: non è un automa; gode di ottima salute polmonare, quanto mai rassicurante di questi tempi; soprattutto, è proprio lui, Lagioia Nicola di anni 47 (appena compiuti), nato a Bari, trapiantato a Roma, già vincitore di uno Strega e direttore in terra sabauda di un’importantissima rassegna culturale. Appuntamento alle 18, telefonata alle 19: vivaddio è pur sempre figlio del Sud, non tradisce le sane abitudini. Quella che segue è la trascrizione in forma di intervista, con evidente artifizio stilistico, di un monologo partito a metà del “buonasera” di creanza e qui riproposto in modalità slow motion. Altrimenti, causa rapidità di esposizione, vedreste solo la scia turbolenta delle parole, un vortice in grado di acconciare alla meglio, cotonandola, la vostra capigliatura ormai scarmigliata, sempre che abbiate fatto i bravi in questi giorni di quarantena. Si parte.
Come va?
«Sono a casa, a Roma, con mia moglie. Entro ed esco solo dalle videoconferenze in Zoom. Il lavoro continua. Da una parte, il Salone del libro di Torino...».
Spostato da metà maggio al prossimo autunno, per colpa del Covid: conferma?
«Stiamo cercando di capire cosa fare, mettendo a punto una strategia operativa per un’edizione non convenzionale. I temi editoriali sono stati stravolti dal coronavirus. Partiremo quando saremo pronti».
L’anno scorso era con voi Luis Sepúlveda.
«Un grande amico della nostra manifestazione. Ma vado ancor più indietro: 2017, lui e Alessandro Leogrande insieme. Uno degli ultimi momenti di vera felicità del nostro lavoro».
Il Salone del libro da una parte, diceva. E dall’altra?
«Sto ritoccando il mio prossimo romanzo. Ci lavoro da anni».
La pandemia, incidentalmente, vi troverà posto?
«No, assolutamente. Per il resto non posso dire altro. Trama, ambientazione: tutto verrà svelato al momento giusto. Dovrebbe uscire in autunno o un po’ più in là».
E il suo impegno in radio?
«Mi alterno alla conduzione di Pagina 3, la rassegna delle pagine culturali di Radio Rai 3. Sono già andato in onda da casa: hanno impiantato un macchinario che si connette con gli studi di via Asiago, qualità altissima».
Parla sempre a ritmi così elevati?
«Una dote fondamentale: in radio non sono ammessi silenzi per evitare cali di attenzione».
Riunioni a parte, come passa le giornate?
«Pur vivendo dal 2006 in questo palazzo umbertino, all’Esquilino, non avevo mai visto la terrazza condominiale. È uno spazio aperto dove si può correre. Quando salgo, trovo sempre qualche ragazzo che fa esercizi. Lontani quanto basta».
Come inciderà su di noi quest’esperienza?
«Dal punto di vista emotivo, all’inizio è stata affrontata meglio. Pur nella tragedia, eravamo ottimisti perché consapevoli che distanza e isolamento erano scelte opportune. Nella vita non capita quasi mai di sapere cos’è giusto e utile. Stavolta è stato facile: restare a casa per il bene di tutti, nostro, del paese, dell’umanità».
E poi?
«All’effetto rigenerante ne è subentrato uno sempre più depressivo. L’uomo non è fatto per la resistenza passiva. Abbiamo bisogno di immaginare il futuro, progettarlo insieme. Questa situazione di incertezza non fa bene all’umore. I canti dai balconi, così frequenti nei primi giorni, si sono ridotti di molto».
Incertezza, dice: cos’è andato storto?
«Più si capiscono i fatti e più si intuisce che forse qualcosa non ha funzionato. Sono partite le prime inchieste. Siamo turbati. E anche a livello internazionale, è molto chiaro cosa sia la Cina, cosa gli Stati Uniti, ma l’Europa? Cos’è l’Europa? Viviamo uno stress-test a livello comunitario e identitario cui non stiamo rispondendo bene. C’è più disunità che solidarietà».
Come cambieremo?
«Lo smart working, intanto. Su dieci riunioni almeno cinque si sono svolte con la stessa efficacia di prima, ma ora è più facile mettere insieme persone altrimenti irraggiungibili. Poi, per carità, resta il fatto che andare al lavoro, prendere un caffè insieme e fare una chiacchierata sono fattori che sviluppano intese e producono idee. Tuttavia spero che questa nuova modalità permanga».
L’abbrivio non è stato semplicissimo.
«Nel nostro paese era molto poco diffuso, anche per una certa mentalità padronale: dipendenti sempre sott’occhio».
Una sorta di panopticon.
«Già. Io trovo invece che un lavoratore responsabile produca più in smart working: a casa il mio rendimento è superiore rispetto all’ufficio».
Così però siamo iperconnessi.
«Inevitabile. Ma a questo punto, considerata la centralità sociale dei device, spero divenga prioritaria la questione “big tech”: possibile che la posizione dominante dei giganti dell’informatica li esima dal pagare tasse in modo adeguato? Sarebbero risorse fondamentali per la sanità. Così l’evasione fiscale: negli ospedali salvano la vita pure a quanti sfuggono al Fisco. Il coronavirus è una cartina al tornasole: sono molte le cose su cui dover riflettere».
Intanto è uno choc a livello planetario.
«È il contrario di quanto accaduto l’11 Settembre».
Cioè?
«Allora fu tutto improvviso. In un’intervista, il segretario alla Difesa di George Bush, Donald Rumsfeld, spiegò la débâcle con un crollo di immaginazione nel sistema di sicurezza degli Usa. Noi invece quegli aerei, adesso nella forma del coronavirus, li abbiamo visti arrivare al rallentatore: l’epidemia dilagava in Cina, e in Europa ci si sentiva al sicuro; è arrivata da noi, e negli Usa l’hanno presa sottogamba. In quei giorni ho letto la stampa internazionale: in ogni singolo paese si parlava di quanto succedeva negli Stati vicini, senza preoccuparsi di quanto sarebbe accaduto nel proprio».
Un’illusione itinerante di intangibilità.
«Superstizione: abbiamo voluto credere che questo virus rispondesse non alla fisiologia ma all’antropologia dei popoli. E ogni nazione ha pensato di essere più in gamba di quella vicina. Una follia. Non c’è stato un crollo di immaginazione ma di razionalità».
Eppure, a rileggere alcuni passaggi, un evento atteso.
«Ai primi posti nelle classifiche editoriali c’è “Spillover” di David Quammen, un libro uscito otto anni fa, nel 2012. Lì è previsto ogni passaggio: un mercato cinese sullo sfondo, un pipistrello in copertina. Spiega l’autore: non sono un indovino, ho sentito gli scienziati, e nove virologi su dieci mi hanno spiegato che il rischio di una pandemia, molto elevato, era da collegare alla sostenibilità ambientale. Distruggendo alcuni habitat naturali - questa la tesi - gli animali si avvicinano ai centri urbani, ed è lì che avviene il salto di specie, lo spillover: virus innocuo per i pipistrelli, letale per gli uomini».
Avremo imparato la lezione?
«Vedremo. Il coronavirus è un ambasciatore in arrivo dal futuro, un avviso in vista del cazzotto in bocca che potrebbe stordirci tra vent’anni. I climatologi ci avvertono dei rischi legati al climate change. Dovesse accadere, altro che Covid-19...».
Ritorna il tema delle competenze, messe all’angolo.
«Abbiamo avuto di tutto: i no vax, i terrapiattisti, i cacciatori di rettiliani... Se uno di loro dovesse ripresentarsi con queste teorie bislacche verrebbe portato in giro cosparso di bitume e piume».
La cultura, antidoto alla cialtroneria, è in ginocchio.
«L’editoria soprattutto. Su Internazionale ho proposto un tavolo di lavoro tra istituzioni pubbliche e la filiera del libro per misure ad hoc. L’editoria libraria è grande sette volte il cinema, tredici la musica e vive solo di mercato. Ci sono settori ritenuti fragili, come il teatro, che beneficiano in varia misura di aiuti. Non così l’editoria: dobbiamo inventarci cose nuove, senza paracadute. Se crediamo nell’importanza dei libri bisognerebbe intervenire».
Come?
«Sgravi fiscali e sostegni idonei. L’approvazione della legge sulla promozione della lettura è solo un primo passo. Confido nel raccordo tra addetti ai lavori e istituzioni. Ma il mondo dell’editoria è tanto virtuoso quanto spaccato. Recuperiamo unità».
Tornati alla normalità, rimuoveremo quest’incubo?
«Non credo. Lavorerà dentro di noi. “Il passato non muore mai. E non è neanche passato”, scriveva William Faulkner. Ricordo bene Chernobyl, Tienanmen, Mani Pulite... E non avevano toccato la mia quotidianità. Con il coronavirus è diverso: riguarda te personalmente e la maggior parte degli individui sul pianeta. Memoria individuale e collettiva coincidono».
Tutto questo genererà più solidarietà o maggiori egoismi?
«La realtà ti spiazza sempre. I governanti hanno una responsabilità enorme. Se penso a come è stata gestita la valanga di richieste di sussidio all’Inps, con un portale in tilt che si fa dare lezioni da Pornhub su come controllare volumi intensi di traffico, sconfino nel pessimismo».
Solidarietà o egoismi?
«Solidarietà. Ma se sbagliamo le mosse sarà il disordine».


 
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