Brutte, sporche e cattive: le parolacce

nei suoi otto volumi il Grande Dizionario di Tullio De Mauro ne cataloga ben 365

Brutte, sporche e cattive: le parolacce
di Rosario COLUCCIA
6 Minuti di Lettura
Domenica 2 Luglio 2023, 04:50 - Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 21:25

Nella lingua italiana esistono le brutte parole, ritenute a vario titolo sconvenienti o addirittura proibite, le cosiddette parolacce. Non le usano solo quelli che hanno un’indole grossolana e un’inclinazione per i comportamenti poco educati. Le ha usate perfino Dante nella «Divina Commedia», opera che ha improntato per secoli la nostra lingua e la nostra letteratura. Nella «Commedia» troviamo parole grevi o insulti espliciti come «bastardo», «bordello», «ghiottone», «meretrice», «puttana», «puttaneggiare», «ruffiana» e altre che appaiono vere e proprie oscenità: «culo», «fesso» ‘fenditura tra le natiche’. Ci sono anche allusioni a malattie che mettono in risalto difetti fisici o disabilità varie («guercio», «monco», «sciancato») o alludono a malattie invalidanti o ritenute vergognose, quindi da dissimulare («rogna», «scabbia», «tigna»). Termini che oggi non osiamo evocare alla leggera, perché sappiamo che possono risultare sgraditissimi per chi li riceve. Oppure, se li usiamo intenzionalmente e con piena cognizione, lo facciamo per ferire il destinatario delle nostre parole.

Le perplessità sul policamente corretto


La perplessità di fronte all’uso di certe parole nasce dal “politicamente corretto”, oggi entrato nella coscienza collettiva (di molti, se non di tutti). Certo non ci permettiamo «minorato» o «mongoloide» (moralmente criticabili), e (correttamente) ci chiediamo quale sia la forma giusta e rispettosa, chiedendoci se è preferibile «handicappato», o «portatore di handicap», o «disabile», o «persona con disabilità», o «persona diversamente abile». Non è una sofisticheria linguistica, non riguarda opzioni lessicali pari e tra loro intercambiabili, alternative di questo tipo non si regolano con la grammatica. La scelta coinvolge la sensibilità personale, propria e altrui. Scegliendo alcune parole al posto di altre facciamo capire cosa pensiamo veramente, le nostre idee e i nostri sentimenti. Questo si verifica sistematicamente quando parliamo di fatti che toccano la nostra sensibilità profonda. Nessuno ne è esente, nessuno può dire «non mi interessa, non mi riguarda». La malattia, la disabilità, il sesso, la vita, la morte (insieme ad altri temi in un certo senso più “moderni” come la condizione sociale, la razza, l’orientamento sessuale, la devianza), fanno parte della quotidianità di tutti noi. Impariamo a calibrare le parole: vanno impiegate valutando le connotazioni associate a ciascuna di esse e verificando i valori che alle stesse attribuiamo, a volte anche senza molto rifletterci.
Di fronte a certi termini, Dante certo non poteva porsi le domande che oggi ci facciamo.

Egli costruiva la sua opera mirabile utilizzando al pieno tutte le risorse che la lingua gli offriva, necessarie per rappresentare in maniera adeguata il suo viaggio ultramondano, che descrive le terribili condizioni dei peccatori che popolano i gironi dell’Inferno, le atmosfere variabili e pervase di speranza delle cornici del Purgatorio e infine l’ineffabile misticismo che attraversa i colloqui con i santi e con gli spiriti eletti che popolano i cieli del Paradiso. Per questo affresco a tinte così diverse Dante aveva bisogno di tutto quello che la lingua poteva offrirgli, l’umanità doveva essere rappresenta in tutte le sue sfaccettature.

Il censimento del Grande dizionario 


Il Grande Dizionario della Lingua Italiana (GRADIT) di Tullio De Mauro, in otto volumi, è il più corposo repertorio della nostra lingua, rappresentativo del nostro patrimonio lessicale: vi sono contenute 365 parolacce, contrassegnate dalla marca “volg.”, volgare (riducibili a 323 se si restringono i criteri del censimento). Le sfere semantiche rappresentate sono essenzialmente due, quella sessuale e quella scatologica (cioè attinente all’escrezione). Sono gli ambiti che la società tende a rimuovere in quanto connessi con la fisicità più concreta, e anche con l’origine stessa dell’essere umano e con la sua morte. Nel GRADIT ci sono parolacce molto frequenti e altre usate più raramente; ci sono inoltre termini di diffusione solo regionale o più specificamente dialettali. Appartengono al vocabolario di largo o larghissimo uso parole come «cazzo» (prima del 1310) ‘pene’, al plur. ‘affari’, ‘fatti’, (1582) con valore interiettivo per esprimere meraviglia, impazienza, o anche rabbia, ira, (sec. XIX) ‘niente’, ‘nulla’ (in frasi negative); «culo» (prima del 1300) ‘sedere’, ‘fortuna sfacciata’, ‘omosessuale maschio’; «fica», anche «figa», per influenza settentrionale (prima del 1500) ‘organo sessuale femminile’, (1964) ‘ragazza o donna molto attraente’; «pacco» (sec. XX) ‘rigonfiamento provocato nei pantaloni dai genitali maschili’; «palla» (sec. XIX), specie al plur. «palle» ‘testicolo’, ‘noia, fastidio’, ‘persona fastidiosa’; «puttana» (sec. XII) ‘prostituta’, ‘donna che ha relazioni sessuali frequenti e promiscue’; ecc. 

Le radici storiche delle parolacce


Alcune di queste sono molto antiche, si trovano anche dove non ci si immaginerebbe. «Fili dele pute, traite» (‘figli di puttana, tirate’) urla ai suoi servi un patrizio romano nella didascalia di un affresco (databile alla fine del secolo XI o agli inizi del secolo seguente) che impreziosisce la basilica sotterranea di S.Clemente a Roma (vicino al Colosseo, è visitabile). Oltre che antiche, danno luogo a ulteriori coniazioni di larghissima diffusione. In particolare il nome degli organi sessuali produce una ricchissima serie di nuove forme lessicali. Un termine appare sconveniente o interdetto, ma tale carattere non ne impedisce la produttività. Dal nome dell’organo sessuale maschile («il pene è un jolly linguistico», ha scritto qualcuno) discendono «cazzata», «cazziatone», «cazzone», «faccia da cazzo», «testa di cazzo» (o «di minchia»), «cacacazzi» o «cacacazzo», «rompicazzo», «scassacazzi», «incazzarsi», «incazzatura», «incazzoso» e molti altri. Le metafore hanno una gamma di funzioni che spazia dall’offesa all’elogio: possono esprimere offesa («cazzone»), elogio («cazzuto»), noia («scazzo», «scazzato»), rabbia («incazzato»), approssimazione (fare qualcosa «a cazzo»), una cosa da poco o una bugia («cazzata»), ecc.
Parolacce circolano sempre più ampiamente, in televisione e nella rete (meno, per fortuna, nella carta stampata), usate anche da esponenti politici o delle classi dirigenti che dovrebbero porsi a modello dell’intera popolazione. «Si tratta di una deriva pericolosa, perché la convivenza civile non può fare a meno di una ragionevole dose di freni inibitori, e una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe sentire l’esigenza di essere anche modello e non solo specchio di un paese di cultura come l’Italia, e quindi saper rinunciare a parole e atti sconvenienti in sedi pubbliche o addirittura istituzionali». 
Sono sacrosante parole che si leggono nel libro di Pietro Trifone, «Brutte, sporche e cattive. Le parolacce della lingua italiana», Roma, Carocci, 2022. Trifone insegna Linguistica italiana all’università di Roma Tor Vergata, è Accademico della Crusca e presidente dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana (ASLI); ha scritto lavori importanti sui testi antichi, sulla lingua del Rinascimento, sulla grammatica, sul romanesco, sulla lingua contemporanea vista nella varietà delle sue manifestazioni. Gli siamo grati per aver saputo trattare con rigore scientifico e con inappuntabile documentazione, con equilibrio e con delicatezza, un tema difficile come quello che abbiamo presentato in questa puntata della nostra rubrica. 
[RIPRODUZ-RIS]© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA