Sacchi, la lezione del “maestro”: «Così il collettivo esalta tutti»

Sacchi, la lezione del “maestro”: «Così il collettivo esalta tutti»
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Domenica 10 Marzo 2019, 20:36 - Ultimo aggiornamento: 20:45
Il risultato attraverso il gioco di squadra. Perché fare squadra è il modo migliore per centrare l’obiettivo. Arrigo Sacchi, a Lecce per un’iniziativa dalla Banca Popolare Pugliese, visita la città, rimane estasiato dal Barocco, torna sul pensiero che l’ha reso famoso ovunque e l’ascolto stimola curiosità, l’interesse non scema mai. Lui, l’uomo di Fusignano, classe ‘46, che trent’anni fa riuscì a plasmare un gruppo di calciatori con il suo fervore innovativo, ricorda gli inizi di allenatore del Milan rifiutando l’etichetta di rivoluzionario, ma definendosi «un signor nessuno convinto delle proprie idee». Parla di elementi imprescindibili per riuscire nello sport come nella vita: modestia, etica del lavoro, forte spirito di appartenenza, sacrificio. Rispolvera aneddoti, racconta storie, ribadisce l’importanza del collettivo inteso come lo strumento migliore per valorizzare il singolo, non il contrario.

Il suo dogma lo proiettò sul tetto del mondo con i rossoneri di un giovane presidente Silvio Berlusconi, imponendo al calcio italiano di fine anni ‘80 un radicale cambio di mentalità: basta stereotipi difesa-contropiede, è il momento di osare per ottenere, di spingersi più in là, con convinzione, senza paura. Come è stato possibile? «Con un gioco corale, recepito e interiorizzato dal sistema nervoso di ogni singolo calciatore attraverso simulazioni continue, per avere risposte simultanee naturali in relazione al comportamento dei suoi stessi compagni e dell’avversario». Fiuuu, mister. Tutto chiaro, però. «Perché il gioco è come la trama di un film. Avete mai visto un film senza trama? In America tentarono di farne uno e non si capì niente. Senza un copione ci può essere solo improvvisazione e pressapochismo, era quello che io non volevo».

Venne fuori una macchina che rasentava la perfezione, dove tutti ebbero l’ossessione di dare per quanto potevano, il massimo per un allenatore e anche per un datore di lavoro. «Un atteggiamento che può essere assunto in qualsiasi ambito lavorativo - non smette mai di ripetere Sacchi, dispensando consigli anche ai più riottosi. Fare squadra in Italia è quanto di più difficile possa esserci, perché prevalgono tante volte dei sentimenti non nobili che sono l’invidia, la gelosia, la smania di protagonismo, l’individualismo, l’arrivismo. Per trasformare un grande gruppo sociale in un grande gruppo psicologico ci deve essere coesione, visione unanime, desiderio unanime, sinergia». L’attenzione per tali principi ha fatto di Sacchi una figura capace di contrassegnare un’era. Ha sempre pensato, il tecnico cui sfuggì il Mondiale del 1994 ai calci di rigore dopo lo scudetto, due Coppe dei Campioni, due coppe Intercontinenali, la Supercoppa europea conquistati con il Milan, che l’intelligenza venisse prima dell’abilità dei piedi, che la passione e l’amore per le cose fossero elementi imprescindibili per poter esprimere il talento. «Un leader è bravo se è un comunicatore efficace. Deve trasmettere e convincere. Penso che come lo sport tutte le attività devono essere offensive, perché chi ha questa predisposizione non ha paura del futuro e si avvicina alle innovazioni in un Paese che generalmente le teme in quanto ha una forte resistenza culturale al cambiamento. E quando c’è resistenza culturale al cambiamento si diventa conservatori, si vorrebbe fermare il tempo e il tempo non si ferma. Ciò induce ad essere pessimisti e se uno è pessimista non può essere creativo».

“Coinvolgimento” la parole chiave. In ogni attività professionale per convincere gli altri che la tua è un’intuizione che può portare a un obiettivo serve avere spiccate doti comunicative, di iniziativa, capacità di gestione del tempo, abilità di analisi, flessibilità, reattività. «Quando arrivai al Milan ero uno sconosciuto. Ma ero molto convinto di quello che facevo. Quello che io pensavo era esattamente il contrario di ciò che avevano sempre detto fino ad allora tutti». Sacchi portò una nuova filosofia nel calcio italiano, in termini tecnici venne chiamata “zona pura” e puntava proprio ad esaltare il gruppo di lavoro e il gioco d’attacco. Non fu facile imporre questa mentalità, c’era diffidenza e l’allenatore fu visto dall’ambiente pallonaro come un eretico, un eversore perché metteva in dubbio un sapere consolidato. «Ma i neuroni sono come i muscoli, se non si allenano si atrofizzano», ribatte. «Noi giocavamo un calcio diverso e ci criticavano. Dicevano: “ma come, fanno un gol e poi continuano ad attaccare? Così spenderanno tutte le energie”. Io pensavo esattamente l’opposto, che l’ottimismo ti crea energie, come te le crea un progetto a lungo termine».

Dire che il suo Milan, nato nel 1987, ha cambiato con ogni probabilità la recente storia del calcio italiano non è un azzardo. L’attuazione dei concetti dell’allenatore-filosofo hanno fatto scuola. A cominciare dallo stile. Sacchi batte più volte su questo tasto. Ama ripetere che «lo stile è una delle poche cose che insieme alla cultura cooperativa deve sempre apparire nei momenti di evoluzione costante dell’umanità. Lo stile permette di generare orgoglio in chi lavora». Ma all’inizio non fu facile convincere i giocatori. «Sapevo che da solo non avrei potuto far nulla. Al Milan, che non vinceva da vent’anni in Europa e da dieci in Italia, era appena arrivato un nuovo presidente che era avanti un giorno rispetto a tutti gli altri. Aveva idee e coraggio, non aveva paura di rinnovarsi. Mi disse: dobbiamo diventare la squadra più forte. Fui affascinato dal progetto. I calciatori in principio non credevano, continuavano a fare le cose che avevano sempre fatto: se l’allenamento era alle 11 arrivavano alle 10.45, in fretta e furia si cambiavano, si allenavano e andavano via. Questo, per me, non poteva significare amore, passione. Così a Berlusconi dissi: “dottore, qui stiamo sognando solo io e lei. Se non riusciamo a tramutare questo sogno in una sfida collettiva non vinceremo mai”. Cominciammo a lavorare nella testa dei singoli perché il leader quando ha un grande sogno lo deve difendere con tutte le forze che possiede. E allora tutti i giorni cercavamo di trasmettere il messaggio che la squadra aiuta il singolo ad essere migliore. Meglio undici persone che remano nella stessa direzione credendo nelle idee, nelle emozioni, nella bellezza, nello spettacolo. Volevamo dare questi segnali alla gente che veniva a vederci».

Il metodo portò ai risaputi successi in ambito mondiale grazie anche all’elevato spessore tecnico della rosa del Milan. Non si saprà mai fino a che punto la qualità dell’organico rossonero andò in soccorso alle intuizioni del tecnico. Restano i risultati ottenuti, un metro di giudizio che spesso tende ad inquinare la corretta analisi di una prestazione. Ma questa è un’altra storia. E forse anche per questo Sacchi ama parlare di merito. «Quando vidi che i miei ragazzi cominciavano a correre e sacrificarsi l’uno per l’altro, che finito l’allenamento non scappavano via ma avevano il piacere di stare insieme pensai: cominciamo ad esserci. Eravamo diventati un gruppo coeso, teso all’obiettivo. La società ci aveva dato input precisi: vincere con la bellezza. Per questo ci mise tutti nelle migliori condizioni per esprimerci. A quel punto il mio compito era esaltare il merito, perché ho sempre pensato che bellezza, idee e coraggio rendono l’uomo libero, senza timore e sudditanza psicologica. Sono riuscito a lavorare sulla testa dei singoli facilitato dal fatto che ero molto attento a prendere calciatori con determinate caratteristiche, dovevano essere uomini affidabili, motivati e intelligenti, con entusiasmo e generosità».

Quindi un parallelo con la vita di tutti i giorni: «Solo chi è intelligente può uscire dall’egocentrismo, che è una delle piaghe della nostra società. L’egocentrismo quando si scontra con l’intelligenza vince, allora bisogna subito azzerarlo così come il protagonismo e l’individualismo. Tutti elementi contrari alla filosofia del gioco di squadra, al vivere insieme». Ancora oggi molte correnti calcistiche si basano sull’attuazione dei metodi sacchiani. «Perché la routine uccide il rischio che è alla base di ogni avventura», chiude l’ Arrigo nazionale svelando l’aneddoto che portò al Milan Carlo Ancelotti. «Lo volevo a tutti i costi. A Roma Berlusconi mi confidò: “mi dicono che è rotto”. Lui aveva due crociati rotti e tre menischi fatti fuori. Il medico della squadra lo visitò e appurò che aveva il 20 per cento di inabilità al ginocchio sinistro. Quando faceva freddo prima dell’allenamento i massaggiatori con il phon gli riscaldavano la plastica che aveva nel ginocchio in modo che si dilatasse e non sentisse dolore durante la partita. Ma era un uomo che aveva disponibilità e cuore enormi. Così dissi a Berlusconi: “guardi dottore, se lei mi prenderà Ancelotti io le vincerò il campionato”. Mi rispose: “ Arrigo, ha il 20 per cento di inabilità a un ginocchio”. Allora lo rassicurai: “Sarei preoccupato se l’avesse nella mente, ma la mente è sana”. Cercavo delle persone affidabili. E cosa dovevo dare loro? Semplicemente la trama del film».
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