Una fastosissima monacazione (1762)

Una fastosissima monacazione (1762)
di Pietro PALUMBO
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Giovedì 17 Agosto 2023, 10:36 - Ultimo aggiornamento: 22 Agosto, 14:13

La cronaca dice: «A dì 27 maggio 1762 nella Chiesa di S. Giovanni Evangelista si è fatta la velazione di tredici Signorine Monache precedente Breve di S.S. Papa Clemente XIII, di famiglia Rezzonico veneziana». In quel tempo l’antico convento di San Giovanni Evangelista era nel suo maggior splendore.

L'antico convento 

Piantato, in tutta la grandiosità normanna, a un angolo della città, si era allargato di secolo in secolo, si era arrotondato, era divenuto un vero edificio patrizio e monumentale. Aveva lunghi corridoi, una miriade di celle popolate di Crocifissi e di Madonne, un largo cortile sul quale s’aprivano infinite finestrelle dalle quali facevano capolino i soavi profili delle vergini rinchiuse, e una magnifica chiesa. Dovunque alitava uno spirito di raccolta religiosità e di misticismo. Il secolo, o meglio i secoli precedenti, e ce n’erano stati una filza, avevano riempita la città di monasteri e di chiese. L’umanità, intristita tra le lotte aragonesi e francesi, aveva voluto confinare in essi quanto aveva di più prezioso: le donne e i tesori. E mentre al di fuori turbinava la bufera delle guerre civili e delle invasioni turche, e gli angoli diventavan segnacoli di zuffe e di sorprese, là dentro una bieca ragione di stato e di famiglia spingeva il fiore della beltà leccese, destinata a languire e a pregare. Talvolta, di sera, dal remoto quartiere accanto agli Agostiniani, saliva lenta per l’aria la loro preghiera fatta di lamenti e di rimpianti.

A notte fonda, le suore malinconiche, cinte di nero saio, col bianco velo attorno alle gote macilente, mentre tinnava la campana del convento, attraversavano a due a tre i foschi corridoi in fretta e si raccoglievano nel coro dai lucidi scanni a pregare per il secolo irrequieto, e per i loro cari che dominavano, tiranneggiando. Davvero in quel convento era annidata tutta la nobiltà femminile. Se al di fuori tagliavano alto e basso i Falconi, i Paladini, i Castromediano, al di dentro v’erano badesse irte, coi lini biancheggianti, col piglio da padrone, ma anche le dame più rispettabili della società leccese.

La badessa

Si ricordano Agnese, sorella di Accardo conte normanno; Guaimarca; Emma, la zia materna beneficata da re Tancredi; e poi donna Livia Calò, Olimpia Guarino, Dianora delli Falconi, Camilla Prato e Filomena Lubelli. A quei giorni chi diceva badessa diceva la più potente delle signore, destinata anche lei a comandare, a dirigere non solamente l’azienda monastica ma ad inframmettersi negli affari mondani, ad entrare nelle famiglie, a comporne le ire, a trattare parentadi. La zia monaca c’entrava da per tutto. Era la rappresentante autentica di S.M. di Spagna conservava negli archivi centenari del monastero diplomi in pergamena, bollati e stemmati, che tuttora si conservano gelosamente. Non v’è dunque ragione di meravigliarsi se quel convento fosse diventato famoso, forse molto di più di quello di S. Barbato di Oria, ed avesse avuto onori e privilegi dai re di Napoli e dai Papi. Nel Settecento, al tempo della decadenza spagnuola, la sua importanza, pur tra la vita sempre snervata e le sdolcinature che guastavano il secolo, durava ancora. Che anzi il suo incremento si doveva appunto ai tempi divenuti più gentili e più forbiti. Era subentrato un non so che di vaporoso come la cipria, e di olezzante come le strofe di Metastasio. I larghi spadoni e le corazze brunite si erano mutati con gli spadini e con le guarnacche scarlatte e luccicanti di argento.

I palazzi monumentali

I Vescovi avevano palazzi monumentali zeppi di dorature e di quadri di scuola. Monsignor Giuseppe Maria Ruffo aveva nelle stalle venti cavalli e dieci carrozze, un palazzo damascato, dagli stanzoni colmi di libri e di pergamene. A monsignor Sozy-Carafa era sembrato angusto il Vescovato e ne volle costruito uno più monumentale e più largo. Il secolo rideva. È naturale quindi che tra tante squisitezze e bruniture il convento, che prima si popolava per ripararsi dalle turbolenze e dalle persecuzioni, nel secolo XVIII si gremisse di giovani signore per semplice moda. La cronaca continua e noi la riassumiamo. Il 27 maggio del 1762 si faceva una infornata di monache, in mezzo a molte feste e ad infinito apparato. La città si era pavesata, molti paggi a cavallo facevano ondeggiare i pennacchi, l’Università e il Vescovo si pavoneggiavano. La nobiltà si era ridestata, aveva rinfrescati gli stemmi, e si era subito circondata di armigeri variopinti e di dame incipriate. Le destinate a prendere il velo erano cinque fanciulle dei Frisari, duchi di Scorrano, le due sorelle Vaaz figlie del conte di Mola del ramo dei duchi antichi di S. Donato, la signorina donna Francesca Paola dell’Antoglietta dei Marchesi di Fragagnano, donna Teresa Lopez y Royo dei duchi di Taurisano e Monteroni, donna Maria Natale, donna Marianna Biamonti, donna Anna Teresa Palmieri figlia del barone di Merine. Quel giorno l’antica chiesa del convento, che aveva mutati i tratti normanni col barocco spagnuolo nella riedificazione avvenuta nel 1607, si era subito popolata della più scelta nobiltà del luogo. Mentre le armonie dolci e trasparenti dell’organo si spandevano per le arcate e traverso i finestroni colorati, il parentado faceva ressa attorno alle spose facendo i suoi rallegramenti e scambi di cortesie. Molte dame erano destinate ad accompagnarle durante il giro d’uso per la città. Spiccavano nelle vesti di broccato a canuttiglie d’oro donna Aurelia Carignani marchesa di Botrugno, donna Francesca Montefuscoli, donna Francesca delli Falconi, donna Maddalena San Biasi, donna Teresa Paladini degli antichi conti di Lizzanello, donna Teresa Maresgallo dei marchesi di Maglie, donna Porzia Martirani, donna Letizia Stumei, la marchesa Castriota, la baronessa Capece-Latro di Corsano, la duchessa di Parabita, la contessa di Pisignano e la presidentessa Dusmet. Il giorno seguente le fanciulle, col velo e in testa una ghirlanda di fiori di arancio, tra il suono delle musiche e lo scoppio dei mortaretti, fecero il giro rituale. Le precedeva una lunga processione di preti e di cavalieri. Erano circondate dalle nobili dame, da baroni e da soldati con gli schioppi. Il popoletto si ammucchiava agli sbocchi, ai larghetti, sui balconi, sui mignani. Sfilarono, per la vicina chiesa degli Agostiniani e per la cappella di S. Pantaleone; entrarono nella chiesa delle Alcantarine; dalla casa dei Gesuiti, ora dei Tribunali, s’incamminarono per le Quattro Spezierie, per i Teatini, ed entrarono nel Vescovato. Colà il Vescovo fece loro visitare il palazzo riccamente addobbato ed offrì molti rinfreschi. Era già notte allorché il lungo corteo entrò nella chiesa di S. Matteo, in quella di S. Chiara e per la strada della Carità e dei Notari giunse in Piazza, tutta illuminata di torce e di lampade e pavesata di drappi.

«Essendo ben notte – dice la cronaca – mentre le signore monache erano in piazza, si fecero trovare tutte le botteghe dei mercadanti aperte ed illuminate ed esposto da loro quanto aveano di gentile e prezioso, ebbero esse signore il piacere di vedere e tenere nelle proprie mani quanto loro aggradiva facendo ancor compra di molte rarissime cose». Certo l’usanza di codeste monacazioni teatrali durarono ancora un pezzo. Duravano ancora verso la metà del secolo XIX e, tra i fiori e i gelati, i poeti si facevano un dovere di spargere i loro sonetti e le loro canzoni, pervase di leziosità, su foglietti rossi, verdi e gialli. Si distribuivano in chiesa mentre il vescovo tagliava alle fanciulle rapite al mondo le superbe trecce verginali, ed i valletti in divise rosse e bleu giravano attorno le spase, colme di pasticcerie confezionate dalle monache del Convento, le quali in quest’arte erano divenute famose. E se ne distribuivano in casa al Vescovo, al Preside, al Comandante della Provincia e presso le famiglie amiche sotto forme gentili e gustose, in sorbetti di frutta, in piatti di ceci teneri che sembravano veri, in zuppiere ricolme di maccheroni con sopra spicchi eleganti di salsicce olezzanti di cioccolata e di cannella.

(1912)

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