Lecce, sempre perduta e sempre ritrovata

Piazza Duomo in una foto dei primi del Novecento
Piazza Duomo in una foto dei primi del Novecento
di Antonio ERRICO
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Lunedì 31 Luglio 2023, 17:09 - Ultimo aggiornamento: 17:45

Fu in una mattina di febbraio che finiva e il nevischio intirizziva gli uomini e i colombi, che il ragazzo che veniva dalla provincia con la corriera per fare l’università conobbe Lecce. La città stava tutta nelle pagine di un libro che si intitolava Un popolo di formiche, incontrato per caso nella biblioteca dell’Ateneo, a porta Napoli. Era il Settantanove. Tommaso Fiore se n’era andato da sei anni.


Alla fine del poema “Il Male è dentro di noi”, il figlio Vittore lo aveva salutato con queste parole: «Tommaso Fiore guarda in faccia alla morte./ La Puglia oggi è triste./ Arrivederci, arrivederci».
Il ragazzo leggeva e si ritrovava nello smarrimento che lo accerchiava passato il viale della stazione, fra viuzze brevi, tortuose, bitorzolute.


Da quelle pagine varcò porta San Biagio, fece via dei Perroni, vide il palazzo Lubelli, quello con lo scudo angolare e il drago a sette teste, poi il palazzo Rossi, di fronte alla Chiesa di San Matteo, percorse via D’Aragona e vide il palazzo Scrimieri, e palazzo Verdesca, e poi girando vide il Duomo e Santa Croce, e girando si perdeva, in quella città che gli si andava configurando dentro gli occhi, riga dopo riga. Non sapeva nemmeno se quei palazzi e quelle vie esistessero davvero. Anni dopo imparò che le confusioni, le improprietà, le inesattezze, avrebbe potuto giustificarle al modo in cui lo fece Roland Barthes, dicendo: “Ho sognato una città: la luce, la dolcezza, la calma di una città estrema. Poco importa quello che Lecce è veramente, non la conosco”.


Poi uscì dal libro e si mise a camminare, mentre il nevischio calava leggero, e vide l’Anfiteatro, il Sedile, il Castello, piazza Sant’Oronzo, la Torre del Parco, i campanili, le ville, i balconi, i vichi, i portici, le tre Porte, le figure antropomorfe che spiano i passanti, fantasmi che ritornano da un universo barocco affascinante e falso. Poi vide le botteghe con i santi di carta, le Immacolate con lo sguardo rivolto al cielo e i Nazareni biondi, le Addolorate dai volti stupefatti, tutte quelle figure nate dalla noia: la cartapesta è figlia della noia leccese, disse Vittorio Bodini.
A distanza di molti anni ancora continua a smarrirsi per le strade della città. Volutamente. Voluttuosamente. Perché nel provinciale permane e prevale lo stupore, ad ogni età.


Ogni volta che si perde per quelle strade che ha attraversato centinaia di volte, ogni volta che a un incrocio si disorienta, gli viene in mente quel frammento della “Infanzia berlinese” in cui Walter Benjamin dice che ci vuole una certa pratica per smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta.
Il provinciale a Lecce pensa che solo smarrendosi può avvertire la vertigine che provoca lo splendore del barocco, solo con uno sguardo distratto lasciato cadere in un vicolo, un cortile, su un balcone incorniciato di gerani.
Poi il barocco intimo l’ha conosciuto dopo, nelle pagine di altri libri.
Si dice che il tempo cambi ogni aspetto di un uomo, meno che il colore degli occhi. Forse anche in un luogo c’è qualcosa che non cambia mai, che riesce a sottrarsi alle metamorfosi, al disarmonico espandersi. Il barocco è il colore degli occhi della città.
Si guarda il barocco e da esso si è guardati. Forse per il provinciale questa relazione di sguardi si sviluppa in modo più intenso, perché non è connaturata, perché è un evento al quale non è abituato.


(Il gatto bianco rigonfio di pioggia è pietra tra la pietra di San Matteo. Poi, all’improvviso, quasi risvegliandosi dal sonno profondo dei secoli, scaglia sé stesso verso la via Federico d’Aragona e si dissolve nella profondità silenziosa del buiore dal quale proviene. Dall’altra strada un uomo senza età procede verso la chiesa strascinando il suo giaciglio di stracci e di cartone infracidito. Ai lati del cartone c’è scritto: fragile. Non si riesce a capire a chi si riferisce quella parola. Ma viene da pensare che si riferisca all’uomo, a tutti gli uomini come lui che sono fragili.)
Il barocco di Lecce innanzitutto si percepisce: nella modulazione di figurazioni, nella fantasia armoniosa di volute, nello slittamento ondoso di prospettive, nella nuvolaglia di decorazioni.
Poi si capisce, anche, forse. Dopo.


Forse ha capito un poco il barocco, se un po’ l’ho capito, quando lesse quelle pagine di “Secoli fra gli ulivi” in cui Fernando Manno dice che esso non è pensiero ma è senso, e va fra i due poli di una colma gioia di vivere e di un abbandono sognante fino ai limiti del possibile; quando dice che si salda alla terra, alla storia, al cuore del paese, non pietra, non arte, non opera. Ma voce del paesaggio. Sangue.
Forse ha capito un poco il barocco, se un po’ l’ha capito, con le poesie e con le prose di Vittorio Bodini e di Vittorio Pagano. Con quel loro scavare nell’aria della città fino a trovarne e a mostrarne gli occhi che non cambiano mai.
Ha capito il barocco, l’orditura di maschere e di putti, la frana della pietra, leggendo le poesie di Vittorio Pagano, uno dei più grandi versificatori europei del Novecento, paragonabile soltanto ai poeti francesi che ha tradotto. Magistralmente.


Ha conosciuto Lecce leggendo Vittorio Pagano. La città che si deforma e poi riprende forma. Che si decompone e poi si ricompone. Che si sfarina e poi si ricompatta. Sempre perduta e sempre ritrovata. La città che batte come il cuore, che fiotta come il sangue. La città dell’alba, della notte. Che muore ad ogni istante e ad ogni istante risorge.
Si può conoscere la città in ogni angolo, in ogni vicolo; si può conoscere il numero esatto dei suoi balconi, delle pietre dei suoi teatri; se ne può conoscere la storia fino alla minuzia, ma non si potrà mai guardarla dentro gli occhi se non si legge “Via De Angelis” di Bodini ed “Elegia minore” di Pagano.


Non si può.
Non sa dire, il provinciale, se ancora accade, ma allora, negli anni Settanta che volgevano al tramonto, Lecce aveva uno sguardo acuto e un provinciale lo riconosceva da lontano.
Non sa dire com’è ora ma allora, nei confronti del provinciale, Lecce aveva un’elegante supponenza emarginante.
Che Lecce emarginasse elegantemente i provinciali, lo si vedeva già nei corridoi dell’università o durante le lezioni; soprattutto lo si riscontrava quando si facevano gli esami.
Appena si finiva l’esame, quelli e quelle che erano di Lecce chiedevano al provinciale quanto avesse preso, e quando rispondeva “trenta” lo guardavano allibiti, e dicevano: “Ma tu non vieni dal paese?”.
Allora il provinciale diceva “trenta”, anche se non era vero. Trenta trenta trenta. Perfino all’esame di latino con Orazio Bianco.
Il giovedì e il venerdì, tra una lezione e l’altra, quelli e quelle che erano di Lecce organizzavano le feste per il sabato. Ma quelli del paese non li invitavano mai. Poi una volta, forse dieci anni dopo, forse di più, ne invitarono uno. Lo invitarono a una festa letteraria. Così dissero: letteraria. Dissero che ci tenevano che ci fosse. Ma uno non ci andò. E beh, no. Perché uno il paese se lo porta addosso, sulla pelle, dentro, in fondo al cuore, in ogni circostanza, quale che sia la stagione. Se ne porta dentro l’orgoglio. Se lo porta dentro sempre con lo stesso stupore.


Allora, uno a quella festa non ci andò.
Oltretutto non capiva come potesse essere mai una festa letteraria. Però avvertiva, più o meno inconsciamente, che Lecce amasse i letterati, i colti, gli eruditi. Ma non i poeti. Non gli artisti. I poeti e gli artisti veri. Quelli che scompongono il ritratto delizioso della città facendone vedere il cranio. Alla maniera in cui ha fatto Vittorio Pagano.
Sul finire degli anni Settanta, ai primi degli anni Ottanta, Lecce era morbida, dolce, o almeno così sembrava al provinciale che se ne andava in giro appena poteva, con il programma di perdersi in mezzo allo splendore di rondini e di luce, in mezzo alla sontuosità e all’allegoria, avvolto dai vapori dei bar, come in una poesia di Giorgio Caproni, per i viali che sembravano lunghi, lunghissimi. Indugiava nelle librerie che rivelavano tesori. Se ne restava a guardare la facciata di Santa Croce, quell’esplosione della pietra, quelle forme rutilanti, vorticose.
Così la città cominciava a entrargli dentro. Porta Napoli era il centro del mondo. Lecce-fresia, Lecce-lupino, limone, Lecce-mimosa sensitiva a ogni balcone, scriveva Ercole Ugo D’Andrea. Poi Antonio Verri: erano giorni di smalto e di risacca, occhiate veloci, donnine di gusto al Caffè Buda. Silenzi parlati, risa fragorose e poi quell’aria verde novembrina che mandava brusii di cioccolato. Cavalli imbracati, Lino Suppressa. Ancora. Brusii sfiati battaglie. Sospiri cautelosi.


Se a quel tempo, sul finire degli anni Settanta, ai primi degli anni Ottanta, qualcuno avesse domandato di Lecce al provinciale, lui avrebbe risposto così: questa è la mia città, le mura le avete viste: sono grigie, grigie. Di lassù cantavano gli angeli nel Seicento, tenendo lontana la peste che infuriava sul Reame. Questo soltanto avrebbe risposto, con le parole di quell’hidalgo salentino che scrisse della luna dei Borboni. Poi, forse, avrebbe detto di una città che si cresce dentro un frenetico gioco dell’anima che ha paura del tempo, moltiplica figure, si difende da un cielo troppo chiaro. Solo questo. Nient’altro. Solo memoria. Poesia. Nient’altro avrebbe detto.
Se glielo si chiedesse ancora, adesso, il provinciale risponderebbe solo questo. Solo memoria. Poesia. Nient’altro che questo.
 

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