La Mara

La Mara
di Leda CESARI
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Martedì 22 Agosto 2023, 14:36 - Ultimo aggiornamento: 23 Agosto, 10:20

Un’istituzione cittadina, a suo modo; una pioniera della trasgressione, anche, quando la trasgressione era roba seria, non giochino di marketing per festival che hanno bisogno di aiutini. E un’attrazione insieme: se eri adolescente e volevi un brivido serale, nella sonnacchiosa Lecce degli anni Settanta e Ottanta, la protagonista di quel turbamento era invariabilmente lei, “la Mara”. Al secolo Antonio Lanzalonga: un* che ha sfidato pregiudizi e anatemi in tempi politicamente scorrettissimi per affermare il proprio diritto a esistere, nelle forme e nei modi che aveva autonomamente scelto per sé, e per le quali ha preteso rispetto fino all’ultimo. Poche, all’epoca, le parole di solidarietà, vera o finta che fosse: non si usava. E l*i, d’altronde non avrebbe mai tollerato di essere commiserat*, compatit*: “E mo cce cazzu me sta’ cchiangi?”, avrebbe esclamato col suo vocione irrauchit* da geni, eccessi e sigarette: di contrabbando, ovviamente. Che smerciava insieme ai suoi favori particolari.
Ti avrebbe preso a male parole, e magari tirato addosso qualsiasi oggetto gli/le fosse capitato a tiro, un po’ come faceva con i ragazzini annoiati in giro notturno nel centro storico di Lecce – «andiamo a ’nzurtare la Mara» – da sempre il suo quartier generale, dall’inizio alla fine della sua neanche troppo lunga storia anagrafica. Un luogo di bassifondi architettonici ed esistenziali che la città evitava accuratamente di giorno, ma che veniva spesso nascostamente percorso di notte finché negli anni Novanta, grazie a provvidenze europee e all’intraprendenza del sindaco Adriana Poli Bortone – ma pure in virtù di un fatale ciclo di corsi e ricorsi della Storia – quel borgo antico aveva iniziato uno sfolgorante cammino di recupero e rivalutazione. Facendo ritrovare “la Mara”, oltretutto, come si direbbe efficacemente in salentino, “di sopra”: milionaria (in euro) e proprietaria praticamente incontrastata di case e locali a iosa, avendo negli anni precedenti investito buona parte dei suoi guadagni nell’acquisto di tuguri che magicamente erano diventati, o sarebbero potuti diventare, ambìti pied-à-terre per intellettuali pensosi e figli di papà della Lecce bene.

Miliardaria (in lire), o giù di lì: sulle sue ricchezze frutto d’illegalità e meretricio favoleggiava un’intera città. Quanta strada da quando Antonio Lanzalonga, piccino imberbe – era nato nel 1932 alle Bombarde – sopravviveva a stento grazie alla zia che l’aveva cresciuto e che trafugava verso casa, come racconta Antonio Greco in Mara: la mia vita (una vita diversa), gli avanzi dei pazienti ricoverati in ospedale. Ecco perché non si era mai accontentata, Mara, di quel che il convento infame della sua vita aveva deciso di passarle: non dal punto di vista del denaro, men che meno in fatto di gusti sentimentali. Era una donna in un corpo maschile, ma questo, lungi dal fermarla e relegarla in una vita di nascondimento, l’aveva lanciata nel firmamento dell’amore mercenario omosex. Cacciata da casa quando uno dei fratelli aveva scoperto la sua vera natura – emersa in tutta la sua evidenza grazie all’approccio prematuro con un giovane, avvenente pastore – Mara aveva scelto come nome di battaglia quel bisillabo un po’ esotico e carico di promesse a Genova, vicino al Cinema Universale, dove era in programmazione il film La donna dai sette volti, protagonista femminile l’attrice Mara Lane. E dove lei svolgeva con profitto, allora in trasferta, la sua attività “di travestito e venditore d’amore”, svolta esistenziale impressa alla sua vita dopo aver inutilmente tentato una carriera d’attrice a Roma (così racconta nel libro di cui sopra).

Un nickname – diremmo oggi – che in salentino è quasi una condanna: “mara”, amara. Come la sua vita, in parte. Era bella da giovane, “Mara”, corpo inizialmente sinuoso e occhi da maliarda che le valsero grossa clientela fin da subito, tanto negli anni in trasferta romana e genovese quanto poi dopo, quando aveva deciso di tornare a Lecce, nel “suo” centro storico, diventandone una delle attrazioni principali: senza mai piegare lo sguardo, senza mai accusare il colpo nonostante il suo personaggio – e spesso le sue intemperanze – non passassero inosservate, guadagnandole a più riprese anche periodi dietro le sbarre. “Cce sta’ ‘uardi?”, apostrofava spesso i malcapitati che sgranavano gli occhi al suo passaggio, parrucca cotonata bionda (o scura, secondo i periodi), pelliccia e vestiti attillati nonostante la stazza dell’età adulta, per nulla intimorita dallo stupore o dallo scherno (secondo i casi) altrui. E giù invettive, parolacce e inviti ad andare verso luoghi non battuti dal sole che – paradossalmente – erano stati l’origine della sua fortuna. Perché, nonostante si sentisse una donna, mai Mara aveva voluto “regolarizzare” – diciamo così – la propria posizione anatomica, e dunque anagrafica (mentre la famiglia, racconta il gossip cittadino, aveva chiesto e ottenuto di cambiare una lettera del cognome per prendere le distanze da quell’eccentrico congiunto).
Distribuendo dunque attenzioni amorose a pagamento per molti decenni, Mara aveva fatto soldi, tanti soldi: da giovane, quando era fresca e avvenente, ma anche da anziana, pur appesantita dall’età e dalle innegabili mortificazioni di un’esistenza “diversa” e bagnata in ogni caso – nonostante l’ostentato muso duro contro pregiudizi e avversità – dallo stigma dell’emarginazione. Profitti reinvestiti appunto nel settore immobiliare – se così si può dire – ovvero acquistando case ammuffite alle Giravolte come alla Chiesa Greca. E stamberghe in cui poi aveva collocato extracomunitari a decine – per metro quadrato, pare – riscuotendo con piglio manageriale affitti che andavano a rimpinguare il suo conto in banca. Perché quando hai conosciuto la miseria, non solo economica, sei portato a volte a girarti dall’altra parte: forse per non rivedere te stesso in quei tempi.

Forse per questo, tardivo tentativo d’espiazione di una vita sempre oltre le righe, Mara aveva deciso di riscattare il puzzo insopportabile dei suoi tesori con un atto di generosità inatteso, quasi istrionico: la nomina a sue eredi universali, a parte il dono all’avvocato che l’aveva assistita fino alla fine, delle suore benedettine del monastero di San Giovanni Evangelista, di cui era stata ingombrante vicina di casa dalle parti della Chiesa Greca. Non che questo le sarebbe poi servito – questa era la sua speranza – come titolo di credito per un bel funerale in Duomo, per celebrare quell’ultimo e finalmente liberatorio traguardo raggiunto il 2 gennaio 2001. Ma undici anni dopo, ad inaugurare la Casa della Carità di Lecce – struttura che accoglie i senzatetto per conto dell’Arcidiocesi, proprio nei locali che Mara aveva lasciato alle suddette suore – era arrivato niente di meno che il cardinale Tarcisio Bertone, in pompa magna. La riprova che dal letame nascono i fior, come dice De Andrè; la certezza rincuorante che, seppur non giochi a dadi, Dio abbia alle volte un senso dell’umorismo davvero spiazzante.

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