Mario Ricco, il papà del nuovo diesel: «Auto green? Attenzione, produrre energia ha un grande impatto»

Mario Ricco, il papà del nuovo diesel: «Auto green? Attenzione, produrre energia ha un grande impatto»
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Mercoledì 16 Marzo 2022, 16:57 - Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 09:25

«Sa il motivo di quella famosa battuta? All’epoca mi ronzavano attorno in tanti: quando capivano che l’impresa era complessa, mi lasciavano puntualmente solo. Come un ragazza madre, appunto». La ama ripetere quella frase, Mario Ricco, papà del Common rail.

Pardon, mamma dell’invenzione che ha rivoluzionato i motori diesel: «Sono la madre perché il padre non è mai certo». Classe 1941, laureato in Fisica, nell’ingegneria ha trovato terreno fertile per il suo genio. Ambiente e salute devono essergli grati: se i motori fossero stati quelli precedenti al Common rail, avrebbero inquinato decisamente di più. E ora? Per Ricco, ibrido e motori elettrici non sono certo l’àncora cui aggrapparsi per una circolazione “verde”. «Vanno bene, per carità. Ma produrre energia elettrica è impattante e a volte le dichiarazioni dei politici dimenticano questo particolare. Se imbocchi la strada sbagliata, ti sveni. Oggi c’è grande incertezza su quale possa essere quella giusta. Il mercato intero della mobilità, che in qualche modo era stato unificato col motore diesel e benzina, è destinato a frazionarsi in tanti sotto-mercati. Il presente è diversificare; il futuro non si anticipa, si fa».

SISTEMI A INIEZIONE

 Pugliese, nato a Bari, la carriera che lo ha portato in giro per il mondo. Tutto nacque a metà anni Ottanta, l’amministratore delegato della Fiat era Vittorio Ghidella, all’epoca si vendeva mezzo milione di auto all’anno col motore diesel. Ma il manager sapeva che con quei sistemi a iniezione non si sarebbe andati lontano. La sua visione lungimirante diede impulso a studiare un progetto che potesse trasformare il mercato. Ricco lavorava già all’epoca in un’impresa satellite del gruppo torinese e fu coinvolto. I primi tentativi non andarono e in più Ghidella lasciò Fiat nel 1988, fra non poche tensioni con quello che sarebbe diventato il suo successore: Cesare Romiti. «La forza me la diedero i colleghi con le tute blu - racconta Ricco - all’epoca gli straordinari non erano ammessi, ma gli operai restavano anche dopo le 17. C’era un entusiasmo per un’idea che sapevamo potesse essere vincente». L’elettronica era stata sdoganata sulle automobili dopo un periodo di difficoltà, in quanto costosa e poco affidabile. Quella che oggi si definirebbe tecnologia abilitante. «Il signor Diesel aveva immaginato un’architettonica tipo Common rail ma a fine Ottocento le tecnologie non erano fattibili.

C’è stata una concorrenza di tanti fattori positivi e una grande motivazione a fare da traino». Nacque allora quel motore nel quale gli iniettori non sono passivi, come quelli tradizionali che si aprono quando ricevono combustibile, ma attivi: l’immissione è controllata da una elettrovalvola comandata da una centralina. Dal punto di vista ecologico, il Common rail consente una riduzione rilevante di fattori inquinanti: grazie a una combustione graduale e ordinata diminuiscono le emissioni di gas incombusti. «Ai miei datori di lavoro dissi che forse ce l’avevamo fatta, ma mi sentii dire che era meglio lasciare perdere. Un prototipo fu installato nel 1994. Dovevo trovare il fideiussore». Ed ecco i tedeschi della Daimler. «Loro avevano i quattrini, la Fiat era in grave crisi: a quei tempi si parlava di miliardi di lire e ne occorrevano centinaia. I tedeschi mi guardavano come un venditore ambulante, con sospetto. Ma poi pensarono: “e se avesse ragione?”. Facemmo un giro di 3 ore su una Mercedes E sulla quale era stato installato il Common rail: spinsero la macchina al massimo, andò benissimo». Daimler coinvolse Bosch per ingegnerizzare e il lancio mondiale avvenne nel 1997 con la prima applicazione su Alfa Romeo 156 1.9 e 2.4 JTD. Dopo due anni, era montato sulla totalità delle auto dei maggiori gruppi automobilistici.

FUTURO DA TELECINESI

Per quell’invenzione, Ricco è stato anche insignito dall’Università di Perugia della laurea honoris causa in ingegneria meccanica nel 2019. Ora può guardare avanti, al futuro, come ha sempre fatto. «Il motore elettrico è sicuramente attraente. Socchiuda gli occhi: si tolgono frizione, cambio, forse i freni e un joystick potrebbe sostituire lo sterzo perché la componentistica è ormai di livello altissimo. La fregatura è che una vettura completamente elettrica dovrebbe essere vietata perché la produzione di energia elettrica è particolarmente impattante. Si immette C02, che al contrario dei gas di scarico non ha passaporto. Il legislatore dice: aggiustate l’auto, poi si pensa all’elettricità. Si stanno affrettando i tempi ma mancano le infrastrutture per l’elettrico». Insomma, mild hybrid, full hybrid e plug-in secondo Ricco non sono l’agognata salvezza green. «Ma non voglio condannare il motore elettrico: occorre diversificare le soluzioni di mobilità per i vari sotto-mercati. Se devo alimentare una nave che deve percorrere senza scali 7mila miglia e lo devo fare con delle batterie da mettere a bordo, alla fine non avrò neanche lo spazio per il carico da trasportare. Invece, per il ragioniere Rossi che va a lavoro basta una scatoletta di batteria per percorrere pochi chilometri al giorno. Oggi si danno soluzioni per scontate, ma servirà modellare le risposte. E magari, chissà, tra 20 anni non serviranno più: esisterà la telecinesi e ci muoveremo col pensiero. Scommettiamo?». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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