«Sostituiti da macchine e operai cinesi ma se serve un'esperta vengono da me»

«Sostituiti da macchine e operai cinesi ma se serve un'esperta vengono da me»
di Massimiliano MARTUCCI
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Domenica 23 Settembre 2018, 14:53 - Ultimo aggiornamento: 15:06
Un tempo si chiamava dare fuori ed era il modo con il quale veniva indicata la pratica, molto diffusa, di affidare a sarte esterne parte della produzione delle confezioni di Martina Franca. Chi un collo, chi una manica, a chi invece toccava tagliare i fili per rifinire i pantaloni, il lavoro veniva diffuso sul territorio, per pochi spiccioli, rigorosamente a nero. Chi può raccontarcelo è Daniela, nome di fantasia, sessantenne, sarta da quando ne aveva otto, operaia prima e imprenditrice poi, salvo poi chiudere tutto e limitarsi a fare piccole riparazioni per boutique e confezioni. «Un orlo può costare dai tre ai cinque euro», ci racconta quando l'andiamo a trovare nella sua casa-laboratorio «dipende dal tempo impiegato». Le chiediamo il motivo per il quale le confezioni non danno più lavoro alle sarte in città: «I cinesi. Sono bravissimi, e lavorano anche per turni di diciotto ore» ci spiega mentre si accende una sigaretta. Mentre ci racconta questo passaggio importante, entra in casa un amico, imprenditore delle confezioni, un'azienda che si produce il capo dal disegno alla consegna, che saluta Daniela avvisandola dell'ennesima e imminente chiusura di un'altra azienda. Ripetiamo la domanda: perché non si usa più il dare fuori? «Il loro lavoro è stato sostituito dalle macchine». Risposta secca. Il lavoro nero diffuso, il lavoro femminile, non specializzato, sottopagato, è stato sostituito dalle macchine, e i cinesi sono campioni in questo. «Ma se devono prendere un ago in mano, non sono capaci», ci spiega perentoria. «Ecco perché in alcune riparazioni vengono ancora da me». Un tempo, fino a pochi anni fa, si dava fuori pezzi di lavoro, cucire le maniche, i colli, per pochi spiccioli, un pezzo meno di un euro. Le donne lavorano tra la cucina e le faccende, e arrotondavano lo stipendio del marito, spesso operaio Ilva. Accadeva quando le confezioni, nella maggior parte contoterziste, avevano troppo lavoro dai committenti e per mantenere bassi i costi, utilizzavano la manodopera sparsa nelle case. A Martina Franca tutta la generazione dei nati tra gli anni 50 e 60 ha fatto la gavetta da un sarto, era un mestiere diffuso. Poi le confezioni, e ora nulla, tranne quelle che per sopravvivere hanno scelto di investire sul brand e darsi quindi alla commercializzazione. «Noi cucivamo giacche per Ferrè, per Iceberg», ci spiega Daniela «una giacca finita ci veniva pagata ventitremila lire. Poi veniva rivenduta a trecentomila. Ad un certo punto, intorno al 2000, i committenti hanno iniziato a pretendere costi più bassi, anche ventimila lire per una giacca. Abbiamo dovuto tagliare dove potevamo, licenziare e alla fine chiudere. La concorrenza estera era spietata. Ho avuto fino a quaranta dipendenti». Non c'è nostalgia nelle parole, ma solo fatti. Quello che emerge è che i colpi alla produzione locale sono stati inferti più dalla globalizzazione del 2000 che dalla crisi finanziaria del 2008. All'epoca il settore era ormai in ginocchio e quanto di più prezioso aveva il territorio, l'esperienza delle migliaia di sarti e sarte, stava evaporando come sangue al sole. Solo in pochi sono rimasti, spesso costretti, come Daniela, a sbarcare il lunario facendo riparazioni, ma proprio a loro si rivolgono gli imprenditori, perché sanno che in quelle mura è custodita una sapienza che ha fatto il territorio, per un breve periodo, ricco e orgoglioso, industriale. Il cruccio di Daniela, confida alla fine, è quello di non sapere a chi lasciare il mestiere, a chi cedere una mole di conoscenza e di esperienza dal valore, vero, tangibile, ma incalcolabile: «Le ragazze vogliono fare le veline, ma poi fanno le commesse nei negozi per quattrocento euro. Nessuna vuole venire a imparare il mestiere». Mentre usciamo entra un cliente. Le riparazioni sono, ovviamente, prestazioni a nero. Solita storia: «Ho provato a mettermi in proprio, ma non mi conviene, mi costa troppo, non ce la farei».
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