«Le mie isole galleggianti per vivere l’Odin»

«Le mie isole galleggianti per vivere l’Odin»
di Alessandra LUPO
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Venerdì 22 Luglio 2022, 05:00

Eugenio Barba, lei è considerato uno dei pensatori più innovativi non solo in ambito teatrale. Anche quest’anno sta partecipando a una serie di incontri promossi da Koreja che parlano di futuro e ovviamente di teatro. Il prossimo sarà con Livia  Pomodoro. Qual è la sua idea sul futuro?

«Il futuro è per me l’occasione di incontrare ad-venturas, situazioni e circostanze che verranno. Il sorprendente, l’inaspettato, ovvero l’avventura. È il momento prima che qualcosa avvenga e che mi obbliga a reagire con quello che il passato mi ha dato. Penso sempre al futuro in categorie di passato. Tutta la mia capacità di reagire e di ispirarmi viene da quello che ho letto, da quello che mi ha fatto sognare o destato stupore e sconcerto, da quello che ho visto e ho incontrato. Il futuro è per me il momento che provoca la nascita di qualcosa di nuovo in me e le persone a me legate, la possibilità di far esistere qualcosa che prima non era». 

Lei ha una storia artistica molto lunga, iniziata quando lasciò il Salento per trasferirsi all’estero. Ha più volte raccontato quale fu il suo impatto con la Norvegia che le fornì in qualche modo la prima lezione sull’incontro tra diversità (in questo caso il diverso era lei). Cosa è cambiato nella nostra percezione del diverso oggi?

«La grande differenza è l’incapacità ad affrontare la fatica dell’apprendimento. Penso agli anni ‘50 del secolo scorso, quando come emigrante ho cominciato a cercare di orientami nel mondo. È difficile oggi incontrare il rigore a cui mi confrontavano i miei maestri, la difficoltà di trovare libri e indicazioni, i lunghi tempi necessari per assorbire la conoscenza, metabolizzarla e trasformarla in vissuto personale. Oggi la conoscenza è diventata un’accumulazione di informazioni che si portano in tasca col cellulare. Gli spettatori di teatro, a differenza di quei pochi che apprezzano ancora l’opera lirica, non sanno più riconoscere le qualità di un attore. È un piacere ascoltare una pianista come Beatrice Rana e percepire la sua lunga pazienza per conquistare una tecnica e farla sparire in ogni tasto che muovono le sue dita». 

Ha spesso parlato del teatro come una forma di rivolta seppur mediato dalla disciplina o meglio da un autodisciplina come esercizio per la conquista della libertà. In cosa consiste la disciplina nel mondo di oggi?

«Esiste una disciplina che ti viene imposta dagli altri e se noi stessi non l’accettiamo diventa restrizione delle nostre possibilità. Vi è una disciplina che fa strisciare e una disciplina che fa volare. Ogni forma creativa, ogni processo che mira a dar vita a qualcosa che si ignora presuppone restrizioni e saper fare. Il paradosso della creazione è quello di sfociare nella libertà attraverso resistenze e ostruzioni.

Nessuna bellezza senza regole. Ma è anche un dato di fatto che nessuna nuova bellezza emerge senza rompere le regole». 

Uno dei grandi tabù della nostra società è quello della morte, penso al controverso rapporto che la politica ha con la vicenda del fine vita. Lei ha spesso affrontato il tema della morte come un aspetto complementare della stessa vita. In questo la nostra società le sembra indietro rispetto alle culture orientali?

«Direi piuttosto che la civiltà moderna, nelle sue manifestazioni di globalizzazione e di tendenze a vivere nel presente, intacca dappertutto la consapevolezza di un passato, e la responsabilità verso il futuro. Lo vediamo nel modo come ci comportiamo verso la natura, verso l’acqua, verso le popolazioni del pianeta meno privilegiate. Perdere la dimensione della morte vuol dire dimenticare il senso della nostra vita, e svilire il desiderio di difenderla nelle sue possibili proiezioni. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra sensibilità si atrofizza sempre più. L’indignazione si svigorisce, diventiamo indifferenti. Trionfano le pandemie mentali: il razzismo, l’isolazionismo, il nazionalismo. E noi tutti sorridiamo quando qualcuno parla di ideali».

La Giunta regionale ha deliberato di accettare la donazione del suo archivio e della sua biblioteca muovendo il primo passo per un’opera di promozione, ricerca e studio sulla storia dell’Odin Teatre e sulla sua figura. Come si immagina questo percorso?

«Come una successione di sfide perché presuppone le competenze di un ambiente interdisciplinare che va dalla archivistica alla trasmissione e all’espressione artistica-visuale. Importante diventa la collaborazione tra la Fondazione Barba Varley e lo staff della Biblioteca Bernardini che sarà la sede di una triplice realtà: un centro studi a disposizione di studiosi e studenti con una documentazione sessantennale sul Terzo Teatro, sulle “isole galleggianti” che rappresentano le variegate esperienze internazionali dei teatri di gruppo al quale appartiene l’Odin Teatret. L’elaborazione di questa memoria che sarà immessa nel presente come condivisione di un sapere e formazione attraverso pubblicazioni, filmati, incontri di carattere teorico, pratico, didattico o di ricerca. E infine la trasformazione di questa eredità cognitiva in esperienza artistica visuale-sensoriale grazie alla collaborazione con Luca Ruzza e la sua Open Lab Company. Oggetti, reperti scenografici e documenti saranno trasfigurati in montaggi-istallazioni miranti a creare l’equivalente dell’esperienza teatrale. L’archivio vivente isole galleggianti mira ad essere un percorso emotivo ed intellettuale in cui esperire la storia, le tecniche e i valori dell’Odin Teatret e dei gruppi del Terzo Teatro che hanno rappresentato un radicale fermento creativo dagli anni 70 in poi». 

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