Si fa un gran parlare di “egemonia culturale”, il concetto coniato da Antonio Gramsci circa un secolo fa e oggi polemicamente evocato-agitato in Italia per le nomine negli enti istituzionali o nell’industria culturale stessa (la Rai, la lirica, i festival letterari, etc). Tuttavia, la vera egemonia afferisce piuttosto alla capacità di conquistare i pensieri e la fantasia o di “colonizzare il subconscio”, secondo un’efficace definizione del potere di Hollywood che dobbiamo al regista tedesco Wim Wenders, risalente forse a più di quarant’anni fa. È ancora così? Il cinema americano resta forte a dispetto di un mondo che politicamente, economicamente e – diciamolo – psicologicamente, appare quanto meno “bipolare”? Parliamo da un lato dell’influenza della Cina cresciuta a dismisura negli ultimi decenni e non scemata neppure dopo il Covid venuto da quelle parti; e d’altro canto pensiamo agli “sbalzi d’umore”, per esempio nella vicenda dei dazi, in grado di scatenare tempeste tra le superpotenze. Senza considerare il terzo polo della Russia di Putin impegnata in una guerra di occupazione dell’Ucraina che rischia di allargarsi ogni giorno.
Ebbene, a giudicare da “Mission: Impossible - The Final Reckoning”, v’è ancora una egemonia culturale a stelle e strisce. È il nuovo capitolo della saga mozzafiato con il magnifico sessantenne Tom Cruise, che fra l’altro soggiornò a Bari in incognito per qualche giorno durante le riprese su una portaerei statunitense in quelle settimane in navigazione nell’Adriatico. “Mission: Impossible - The Final Reckoning” è uscito all’indomani dell’anteprima all’ultimo Festival di Cannes dove il raffinato regista Christopher McQuarrie, anche sceneggiatore e co-produttore insieme a Cruise, ha svelato alcuni degli ingredienti del successo nel corso di una masterclass introdotta dal direttore del Festival Thierry Frémaux. Al tempo stesso si è soffermato sui cambiamenti di Hollywood dai tempi del suo folgorante esordio con il copione di “I soliti sospetti” per la regia di Bryan Singer (1995). Trasformazioni dovute, secondo McQuarrie, allo strapotere del marketing e al tamtam dei social che oggi inibiscono i finali davvero a sorpresa. Vero, ma esse non intaccano la suggestione e la seduzione di un cinema tuttora capace – eccome - di intuire e raccontare i grandi temi della nostra epoca con una fabula per definizione alla portata di tutti.
Viene infatti dall’Intelligenza Artificiale la terribile minaccia di una resa dei conti con l’umanità, contro la quale dovrà vedersela Ethan Hunt (Tom Cruise) da un capo all’altro del globo, esplorando un sottomarino nucleare naufragato nelle profondità col suo carico di corpi inermi o saltando sul tetto di un treno in corsa, un topos narrativo di “Mission: Impossible” fin dall’esordio della saga risalente a trent’anni fa, con Cruise oggi non meno in forma di allora (il primo film è del 1996, diretto da Brian De Palma).
Cogliere il conflitto cruciale tra la Realtà e l’Intelligenza Artificiale, ovvero un nodo del controllo del presente, nella trama di un thriller d’azione spettacolare e pop… Ecco la missione possibile/impossibile del cinema americano, anche stavolta premiato da incassi stratosferici in mezzo mondo e prossimo all’uscita sul mercato cinese con le sue decine di migliaia di sale cinematografiche. Se non è “egemonia culturale” questa, non sapremmo cos’altro mai lo è.
Del resto non è una novità, come ben sintetizzato da Wenders pur sempre innamorato della cultura a stelle e strisce. Lui come tre-quattro generazioni europee che durante il Novecento sono state politicamente antiamericane ancorché conquistate dall’immaginario collettivo made in Usa (lo annotò Umberto Eco in un’acuta analisi dei flussi culturali dal fascismo alla ribellione sessantottina).
Prendiamo un altro classico del cinema di massa ispirato dal celebre fumetto della Marvel Comics, “Spider-Man”, in particolare il secondo episodio dell’Uomo Ragno tratto e diretto da Sam Raimi nel 2004 con protagonista Tobey Maguire. Al contrario di quanto postulò Bertolt Brecht («Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi»), davanti allo schermo siamo voraci di eroismi in grado di riscattare malinconie e meschinità della vita quotidiana e Hollywood è lì per quello: illusioni al prezzo di un biglietto. Ma la novità di “Spider-Man 2” stava negli aspetti chiaroscurali del supereroe mascherato, costretto a tessere la sua prodigiosa tela quasi controvoglia, lacerato fra una rasserenante normalità e i tradizionali poteri che a tratti lo piantano in asso. È un film in cui grattacieli di New York, trasfigurati nelle torri neogotiche di Gotham City, sono minacciati, lesionati o utilizzati come piattaforme per vertiginose cadute e duelli aerei, come in una fosca allusione alla realtà dell’11 settembre 2001.
«Sono stanca del futuro»: era la frase chiave di Minority Report di Steve Spielberg (2002), in cui Tom Cruise – ancora tu! – è il comandante John Anderton della sezione “Pre-Crimine” nella Washington del 2054 dove una povera ventenne e due gemelli altrettanto sfortunati figurano tra i freaks, mostri o organismi semi-vegetali in balia della tecnologia che costantemente ne monitora e registra i momenti di eccitazione visionaria in cui sono capaci di indicare quando e con quali modalità avrà luogo un omicidio. Sono insomma al servizio dell’onnipotenza del futuro e del controllo orwelliano del crimine, finché un salutare dubbio non assale Anderton, il quale, come l’androide Rachel di Blade Runner, non sa più in nome di che cosa agisca.
Perché lui, capitano coraggioso, sta per uccidere uno sconosciuto? Quali fili lo legano alla vittima designata? Avrà la possibilità di sottrarsi al destino? Può, ovvero si può, esercitare il libero arbitrio in un mondo dove l’ossessione della sicurezza collettiva coarta la volontà individuale? Dilemmi tragici, più attuali che mai. Hollywood non sempre ha la risposta, ma formula puntualmente la domanda, e talora in anticipo. È questa la sua energia, questo il suo fascino.