Classe dirigente cercasi: «Solitudine e banalità non formano veri leader»

Classe dirigente cercasi: «Solitudine e banalità non formano veri leader»
di Alessandra LUPO
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Domenica 12 Novembre 2023, 05:55

L’equazione non può essere automatica: per selezionare una classe dirigente inadeguata non occorre necessariamente aver smarrito il senso della politica. Così come per eleggere un personale politico privo di una reale vocazione alla collettività non occorre che vi sia alla base una logica corruttiva. Il quadro ha molte sfumature e leggerle può aiutare a comprendere da dove iniziare a riparare quando non a riformare. Dopo gli allarmi dei vertici del procuratore capo della Dda salentina Leonardo Leone de Castris (che in Commissione parlamentare Antimafia ha parlato di legami tra candidati e criminalità), di pari passo con lo stillicidio giudiziario che ha colpito negli ultimi anni le figure apicali della macchina regionale, in tanti provano a interrogarsi su come agire e reagire. E la riflessione abbraccia diversi livelli e sensibilità.

La perdita della complessità a scapito dei contenuti

Parte dalle basi Giovanni Pellegrino, amministrativista ed ex senatore: «L’assenza dei partiti, da sempre luoghi deputati alla selezione della classe politica, è un problema con cui facciamo i conti da molto tempo. Io ricordo che alla fondazione del Pds, in quella drammatica due giorni che portò alla scissione di Rifondazione e all’elezione di Achille Occhetto, non capii una sola parola del dibattito. Il motivo? Per comprendere i concetti complessi della politica occorreva una formazione specifica. Ora questa complessità è invece azzerata e banalizzata e questo si ripercuote inevitabilmente sullo spessore di chi ne è portavoce. Ma il problema della classe dirigente - prosegue Pellegrino - riguarda ormai ogni settore della società, fino alle impensabili vicende che hanno coinvolto la magistratura.

Negli ultimi decenni - prosegue - la società intera ha conosciuto un progressivo imbarbarimento, a mio avviso dovuto in buona parte all’assenza di approfondimento, in parte frutto della forma stessa dei mezzi di comunicazione dai contenuti minimi e con la possibilità di raggiungere in pochi istanti un numero infinito di persone. Come se ne esce? Non so, il rischio è di cadere nella nostalgia dei tempi che furono ma credo che la scuola potrebbe rimodulare la sua azione in tal senso, aiutando i ragazzi a riscoprire la complessità».

Politica spot, elettori lontani e trattati come utenti 


Roberto Voza, ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università degli Studi di Bari, fotografa la situazione con uno slogan: “Popolo senza leader e leader senza popolo”. «Colin Crouch nel suo libro pubblicato nel 2003 descriveva il fenomeno della Postdemocrazia, denunciando l’erosione dei caratteri costituenti delle democrazie tradizionali, a favore di nuove forme di esercizio del potere, in senso oligarchico - spiega Voza -: vent’anni dopo le cose non paiono migliorate. La dissoluzione della partecipazione di massa alla vita pubblica priva la discussione politica di luoghi e occasioni di confronto, sostituiti da comunicazioni che – per essere virali – si concentrano più sull’espressione che sul pensiero (parafrasando Croce). Oggi si discute sempre meno, ma si comunica tantissimo. A sua volta - prosegue il docente -, la liquefazione dei partiti di massa è figlia della ideologia della fine delle ideologie, che descrive la politica come una pura tecnica fatta per risolvere problemi di natura oggettiva, al riparo da scelte di tipo ideale e valoriale. Figlia di questa visione è pure la retorica del voler “parlare a tutti”, che rinuncia a qualunque soggettività sociale di riferimento e corteggia ogni bisogno, purché veicolabile nel consenso. Il resto è pura testimonianza. Oppure è una scoria del passato, liquidabile in quattro parole, le più offensive da agitare nei talk-show: vecchia politica, identità, ideologia. In questo scenario è assai difficile qualunque tentativo di sintesi politica, che sia ispirato ad una visione complessiva della società. Capita di muoversi per obiettivi puntuali e su questioni circoscritte. Nel frattempo, il vuoto di partecipazione sociale alla vita democratica rende sempre più la politica una pratica per iniziati, che si compie al riparo dal confronto pubblico. Agli occhi della cosiddetta gente comune, fare politica deve sembrare quasi una parolaccia: e quando le cose non vanno bene, meglio consolarsi nello sberleffo subalterno verso i potenti, con un post o un commento al bar. Allora, si comprende perché la partecipazione politica tenda a coincidere con la selezione del leader, che ha assunto un’importanza vitale, fino al punto da scriverne il nome sul simbolo elettorale, per capitalizzarne l’esposizione mediatica agli occhi degli utenti, dei consumatori dell’offerta politica, abituandoli a reagire come fossero di fronte ad una serie Netflix: “non fa per me, mi piace, adoro!”. Se poi si sposta il ragionamento sul piano locale, dei “territori”, è del tutto evidente come l’affannosa ricerca di portatori di voti impegni buona parte delle energie, in una confusione – non casuale – fra partiti, sigle, associazioni e movimenti, che rischiano di funzionare come comitati elettorali intermittenti. Peraltro, la debolezza della politica concorre a spiegare lo strapotere della burocrazia amministrativa, anche nelle sue manifestazioni deteriori. Ovviamente, non bisogna generalizzare, per non incorrere esattamente in quella retorica dell’antipolitica, che disincentiva la partecipazione e lascia ogni decisione in mano a pochi manovratori. La politica non è una parolaccia, è una parola bellissima. Lo sanno bene – dentro i partiti, le associazioni e i movimenti – tutti coloro che (e ce ne sono, ai vertici e alla base) hanno voglia di mettersi al servizio del bene comune. Non c’è niente di peggio che credere che “siano tutti uguali”. Certo, chi fa politica intende incidere sul potere, anzi – possibilmente - conquistarlo. Ma è bene ricordare che quella parola non è solo un sostantivo, ma anche un verbo all’infinito e significa avere la capacità e il permesso di fare qualcosa. Un permesso che si riceve dagli altri e che per gli altri andrebbe usato».

Il potere senza garanzie ostaggio della burocrazia


Quello del potere è un argomento che sottolinea anche Egidio Zacheo, già docente di Scienze politiche presso l’Università del Salento: «Non mi meraviglia l’arbitrio amministrativo, perché in una condizione politica in cui uno solo è al comando (e la legge elettorale delle regioni è una porcheria senza eguali), crea una centralizzazione e personalizzazione senza poteri di bilanciamento da parte dei partiti e del Consiglio. Se io comando da solo - prosegue Zacheo -, è chiaro che il mio collaboratore diventi il funzionario o dirigente a cui sono costretto a dare sempre più spazio e qui interviene il rischio dell’arbitrio. In una realtà come quella regionale, dove gli assessori stessi non contano nulla, è chiaro che in qualche modo la burocrazia prenda il sopravvento. Ed è inutile negare che in un contesto poco virtuoso come quello del Sud l’abuso dell’apparato amministrativo sia quasi inevitabile. L’unica garanzia è la politica, per questo bisogna dare più potere al Consiglio e più autonomia agli assessori». 
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