L'intervista/Cacciari: «Renzi non cambierà, il Pd resta un partito leaderistico»

L'intervista/Cacciari: «Renzi non cambierà, il Pd resta un partito leaderistico»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 10 Giugno 2016, 10:22
Massimo Cacciari, la parziale battuta d’arresto del Pd alle amministrative, su base nazionale, è imputabile a fattori contingenti nelle singole città al voto o a un problema strutturale?
«Andrei piano nel parlare di calo. Sì, un po’ dappertutto il Pd prende meno voti, ma non era certo ipotizzabile la percentuale delle Europee. In realtà il Pd è competitivo per davvero lì dove c’è Renzi in prima pagina. E temo che non ci sia rimedio a questo, perché corrisponde perfettamente al carattere del leader, il quale non riuscirà mai a organizzare un partito nel senso di una pluralità di voci coese tra loro, capaci di lavorare in modo differenziato, con una leadership plurale, competente e frutto di diversi specialismi e precisi, reali, autorevoli radicamenti territoriali. Renzi non sarà mai capace di realizzare una macchina del genere, non possiamo mai dimenticare il ruolo di una personalità nella storia...».
La musica sarebbe diversa in un altro contesto elettorale.
«Laddove si dovesse andare al voto anticipato dopo il fallimento del referendum costituzionale, credo che l’appeal di Renzi in una campagna elettorale “da rottamazione” sarebbe ancora estremamente competitivo. Quando invece una campagna si gioca su radicamento territoriale e autorevolezza di leader locali, il Pd ha molte meno chance. Esattamente l’opposto di ciò che avveniva nei partiti tradizionali. Questo voto, peraltro, segnala un fenomeno: in alcune situazioni il candidato sindaco del Pd prende meno voti della coalizione, anche in questo caso l’opposto rispetto a quanto si verificava durante l’epoca berlusconiana per Pd, Ds, Ulivo».
Eppure Renzi vuol dare nuova linfa al partito, accentuarne radicamento e capacità di penetrazione tra diverse fasce sociali e geografiche: incompatibile con la sua figura?
«Quello che lui dice è la cartina tornasole del mio ragionamento: la sua diagnosi è opposta a quella che andrebbe formulata. Perché dice: “basta, ci sono solo io, rottamiamo le correnti, ci sono solo i miei”. Non è in grado di ragionare in termini di costruzione di un partito. Invece lo stanno comprendendo i Cinque Stelle».
I Cinque Stelle? Coloro i quali, cioè, hanno sempre osteggiato la classica forma-partito? Pensa si stiano attrezzando in senso?
«Grillo arretra e la leadership è mista: c’è qualche sindaco, parte dello staff, figure di donne molto raffinate e competenti. Loro, l’opposto della forma partito all’origine, stanno comprendendo che se vuoi fare politica con un minimo di strategia allora un po’ partito devi esserlo. Nel Pd invece Renzi non riuscerebbe ad avere accanto un segretario, o un vice, autonomo: la sua immagine è quella, di un partito leaderistico-plebiscitario».
Il Pd ha quasi del tutto smarrito il voto delle nuove generazioni, orientate verso astensionismo o M5s. Eppure Renzi all’inizio col suo afflato da rottamatore sembrava aver recuperato quella fetta d’elettorato.
«Il punto è un altro: non c’è una questione generazionale, ma il centrosinistra in tutte le sue componenti ha perso ogni contatto con le classi meno abbienti. I giovani non sono “i giovani”: sono il 40% dei disoccupati. E da 20 anni la sinistra perde il rapporto con loro: è anomalo vedere il Pd che sfonda ai Parioli o in via Montenapoleone e a Milano il centrodestra di Parisi che vince nelle periferie. Si combinano allora una visione leaderistica che impedisce la formazione di un gruppo dirigente e uno smottamento progressivo di tutta la tradizione di centrosinistra, venendo meno la ragion d’essere di una forza socialdemocratica, e cioè la difesa degli interessi dei più deboli e - da ultraeuropeisti - la capacità di pretendere l’Europa dei Trentin e degli Spinelli, non questa indifendibile».
Il Pd non ha un blocco sociale di riferimento, o semplicemente è cambiato?
«Se avesse fatto una scelta così, con un mutamento genetico completo, sarebbe stato un conto. Invece non ha riferimenti. Non è semplice, non essendoci più classi sociali o non essendo perlomeno individuabili. Però ci sono i disoccupati, i giovani precari, il ceto medio che si va proletarizzando: il Pd non dice nulla su tutto ciò? E sulle banche, qual è la posizione? Almeno i Cinque stelle qualcosa dicono: magari a vanvera, ma lo fanno. Anche il Pci indicava un orizzonte, seppur irrealizzabile».
Tutto ciò ha un effetto amplificato al Sud, non a caso Renzi immagina una stretta sul Pd meridionale. Il che viaggia di pari passo con la maggiore attenzione del governo per il Mezzogiorno: il Masterplan e la strategia complessiva le sembrano illusori?
«Ci sono “i Sud”: ogni area è diversa dall’altra. L’unica salvezza è quella di un’autentica autonomia delle Regioni, responsabilizzandole, facendo sì che abbiano capacità e poteri di riscossione. Insomma, Regioni davvero e tutte a statuto speciale. L’Italia è sempre stata a pezzi: non si possono governare questi pezzi con approccio centralistico. Facciamone invece dei distinti reali, Renzi metta in moto delle risorse umane e territoriali ben caratterizzate senza imporre tutto da Roma. Il Sud deve fare una battaglia autenticamente federalista, ma fin qui si sono visti solo clienti di chi era al governo».
Lo pensa anche Emiliano, che spesso ingaggia il braccio di ferro con Renzi.
«Emiliano dice qualcosa del genere, ma lui non basta. Dovrebbero muoversi tutti i presidenti delle Regioni per rivedere i rapporti con lo Stato, facendo magari leva su questo nuovo Senato delle Regioni, rivedendo l’assetto e individuando con risorse regionali le cose da realizzare».
Lei ha dichiarato che voterà “sì” al referendum costituzionale: perché?
«A prescindere dal merito, quale sarebbe l’immagine del Paese se dopo 30 anni non riusciamo a completare una vera riforma? Ne verrebbe fuori un messaggio apocalittico di impotenza totale, che porterebbe i cittadini a pretendere di chiudere tutte le istituzioni. Né è una riforma dannosa: sarà pure fatta male, ma è innocua, non credo fosse meglio prima».
Anche nel centrodestra la base di riferimento è completamente pulviscolare, dispersa.
«Forza Italia è in liquidazione, a Milano sono riusciti a salvarsi trainati da una persona seria come Parisi, Salvini per ora è stato bloccato e, pur messo meglio di altri, non riuscirà mai a fare il leader nazionale. Anche perché, per fortuna, in Italia l’area di protesta è stata occupata dal M5s. L’elettorato di centrodestra è d’opinione, ma potrebbe trovare - magari sulla scia del successo di Parisi a Milano - un nuovo collante: Salvini ha istinto politico e sa che bisognerebbe trovare un “Parisi nazionale”. Ma tutto è incerto, anche perché sono fondamentali i ballottaggi».
Prima di tutto per Renzi.
«Se vincerà a Milano, Torino e Bologna, si comporterà da trionfatore e dimenticherà anche i discorsi di questi giorni. Ma se perderà, al referendum non ce la farà ad arrivare...».
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