La memoria mortificata nel villaggio globale

La memoria mortificata nel villaggio globale
di Antonio ERRICO
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Domenica 15 Settembre 2019, 19:28 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 21:29

Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, filosofo, teologo, fatto santo, è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, capace di sciogliere in semplicità di espressione i concetti più complessi, di elaborare immagini di intensità straordinaria, di radunare in una sintesi essenziale significati provenienti da processi di pensiero diversi. Per esempio, nelle “Confessioni” ci sono pagine sulla memoria che raggiungono profondità eccezionali, che anticipano la più avanzata psicologia.
C'è un punto, nel decimo libro, in cui Agostino scrive degli ampi ricettacoli della memoria, dove si trovano accumulati innumerevoli tesori di immagini.
Quando entro in quei ricettacoli, dice, basta che io chieda quel che voglio trarne. Alcune impressioni emergono subito, altre bisogna ricercarle più a lungo come se si dovessero cavar fuori da ripostigli più segreti, altre ancora si affollano tutte quante insieme mentre si cerca o si vuole cosa diversa, e balzano in mezzo come per dire siamo forse noi?. Con un atto di volontà continua - le allontano dalla visione del ricordo, fin quando non si snebbia quello che io voglio e non viene fuori, chiaro, dal fondo. Poi ci sono altre impressioni che si snodano con facilità e con ordine perfetto secondo il richiamo. Le prime cedono il posto alle seconde, e, quando si ritirano, tornano nel loro nascondiglio, pronte a riapparire ad un cenno della mia volontà. Il che avviene quando narro qualcosa mnemonicamente.
Il passo di Agostino attribuisce una rilevanza assoluta alla memoria soggettiva e volontaria, alla possibilità e alla capacità dell'uomo di richiamare i ricordi e di organizzarli, di governarli, di dare ad essi un ordine, di finalizzarli ad un'intenzione, ad un percorso di esistenza che di conseguenza trova nella memoria una condizione sostanziale e fondamentale.
A volte viene da considerare che in fondo non esiste nessuna cosa che si possa pensare, nessun comportamento, nessuna espressione della nostra personalità che non abbia un legame con la memoria, che ad essa non faccia, implicitamente o esplicitamente, riferimento. Probabilmente non esiste neppure una sola parola pronunciata che non si leghi in qualche modo ad un'altra parola percepita magari anche in un tempo lontano. Perfino la nostra immaginazione si fonda sulla memoria. Qualsiasi fantastica configurazione, qualsiasi costruzione immaginaria, trova il proprio impulso nel filamento di una radice della memoria. Poi la si trasforma, la si proietta in un altrove semantico, ma l'impulso è nel fondo della memoria.
Quando non li cerchiamo, i ricordi ci vengono incontro, comunque. A volte inaspettatamente. Ci sorprendono con immagini che si erano inabissate in qualche punto e che improvvisamente riemergono, qualche volta nitide, qualche volta confuse, come fossero avvolte da una nebbia fitta che di esse lascia intravedere soltanto sagome scontornate, sospese nel niente.
Con la memoria ci confrontiamo, facciamo i conti, costantemente. Con serenità oppure con inquietudine, ma inevitabilmente, che ci faccia piacere o dispiacere.
Sappiamo perfettamente che non può essere diversamente da così.
È in quelli che Agostino chiama ricettacoli della memoria, oppure la stanza immensa della memoria, è nel luogo di dentro dove si viene incontro a se stessi, si ricorda se stessi, dove sono depositate tutte le esperienze, il punto in cui risiede il senso radicale della nostra esistenza.
Probabilmente è sempre stato così anche per la memoria collettiva, quella di una civiltà, determinata dalla integrazione e dalla interazione delle memorie individuali.
È sempre stato così, probabilmente, fino ad un certo tempo, che con molta approssimazione e senza nessuna certezza di elementi si potrebbe individuare nella prima metà del Novecento.
È stato subito dopo quel tempo che si è aperta la crepa, si è creata la frattura. È stato subito dopo quel tempo che la memoria collettiva non ha rappresentato più una condizione di riferimento. Abbiamo cominciato a pensare che si potesse ignorare tutto quello che era stato, che tutto accadesse per la prima volta, che noi fossimo quelli che scoprivano il mondo e l'arte e la scienza. Ma soprattutto, e più pericolosamente, che si potesse fare tranquillamente a meno di tutte le esperienze maturate fino a quel momento.
Poi è sopravvenuta la seduzione di una parola: globale. La memoria che costituiva l'identità delle comunità caratterizzate da sistemi simbolico- culturali è stata risucchiata, impastata dal globale. È diventato difficile, a volte impossibile, il riconoscimento dei tratti della memoria collettiva alla quale la memoria individuale appartiene. Quando la memoria soggettiva richiama la memoria collettiva, si ha la risposta di un flusso di immagini e rappresentazioni sovrapposte, confuse, indistinguibili. Quando è la memoria collettiva ad esercitare il suo richiamo, la memoria individuale si ritrova nell'universo informe del globale, non riesce a collocarsi in una struttura culturale, a rispecchiarsi in modelli, archetipi, significati.
Forse non è vero che questo sia un tempo senza memoria, che gli uomini di questo tempo siano senza memoria.
Forse, invece, è vero che sia un tempo di uomini dall'eccesso di memoria senza qualità.
Forse gli uomini di questo tempo rassomigliano drammaticamente al personaggio di una delle Finzioni di Jorge Luis Borges.
Ireneo Funes diceva di avere più ricordi, lui, da solo, di tutti gli uomini di tutti i tempi messi insieme. Diceva che la sua memoria era come un deposito di rifiuti. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo vertiginoso e multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso, sovraccarico di immagini, di meticolosi dettagli concreti eppure intangibili.
Rassomigliamo a Ireneo Funes. Siamo sovraccarichi di memoria, insidiati da una quantità smisurata di memoria prodotta da un mondo vertiginoso, multiforme. In questa quantità di memoria senza forma cerchiamo la chiave di una porta che ci consenta di rientrare nei luoghi e nelle storie che ci hanno fatti nel modo in cui siamo.
Dal trovare o non trovare quella chiave dipenderà il nostro ritrovarci oppure il nostro perderci, definitivamente.


 

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