Dalla Vlora a Kabul: il progresso fermo a trent'anni fa

di Giuseppe MONTESANO
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Mercoledì 18 Agosto 2021, 05:00

Guardiamo la fotografia della nave cargo Vlora stracarica di ventimila albanesi che partì da Valona trent’anni fa, e poi guardiamo la fotografia dell’aereo cargo stracarico di settecento afgani che fugge da Kabul tre giorni fa, guardiamo la calca del 1991 e poi quella del 2021, guardiamo e riguardiamo, guardiamo ancora e riguardiamo ancora: ma più guardiamo cercando l’esattezza storica e più tutto si confonde nella testa, e i fuggiaschi di ieri e i fuggiaschi di oggi appaiono simili, così simili da dare il capogiro. Ma sono storie molto diverse e in epoche molto diverse, ci diciamo, cercando di trovare una razionalità che ci chiarisca le cose. Eppure nella calca di facce che sono immerse nella loro preoccupazione e nella loro ansia sembra non esserci nessuna differenza, e una sensazione strisciante si fa strada in chi disarmato fissa le immagini di quella che si chiama la Storia: e non è una sensazione piacevole.

Non è facile immedesimarsi in chi fugge via da un luogo in cui viveva fino a un attimo fa, che non sa bene dove sta andando ma fugge perché fuggire gli appare l’unica soluzione, ma se per un pugno di secondi riuscissimo a immedesimarci saremmo sommersi dall’angoscia anche noi: anche noi, stesi oziosamente sotto l’ombrellone a godere del mare o stesi a oziare nel freddo artificiale dell’aria condizionata, anche noi sentiremmo l’ansia che toglie il respiro. 

La storia non sta progredendo

Sono passati davvero trent’anni di Progresso miracoloso e grandioso dalle calche angosciate di trent’anni fa a quelle di oggi? Il progresso esiste quando la Storia viene trasformata per il bene degli esseri umani, quando la Storia cambia perché gli individui da soli o riuniti in gruppi la fanno cambiare affinché le persone vivano bene, il progresso esiste quando la tecnica e l’economia sono dei mezzi al servizio degli esseri umani e non viceversa, e c’è progresso quando ci sentiamo pieni di voglia di vivere nel presente e di voglia di scoprire il futuro. È così, oggi? A guardare quelle immagini di folle angosciate, così simili a distanza di trent’anni, si ha la sensazione che la Storia dei singoli individui non stia progredendo: e che siamo bloccati in un loop del tempo e della vita, chiusi in un circolo vizioso in cui il progresso fa contemporaneamente un passo avanti e un passo indietro.

La politica totem

Oggi è Kabul, ieri erano altre realtà: e domani? Le vicende dell’Afghanistan, con il coro di “abbiamo sbagliato tutti” dei capi di Stato, mostra il fallimento della politica-totem come motore di progresso: la politica-totem, di qualsiasi colore, senza una visione creaturale degli esseri umani e del loro bene possibile, è incapace di generare progresso.

Ma anche la tecnologia, diventata da trent’anni il nuovo totem della Storia, è incapace di far progredire l’esistenza: e lasciata a sé stessa o al servizio di un qualsiasi potere, la tecnologia distrugge la vita della natura e degli uomini allo stesso modo della cattiva politica o della cattiva amministrazione. E allora, forse, tocca ai singoli individui sottrarsi ai totem. Forse non basta credere al totem del Progresso o della Tecnica o di qualsiasi altra cosa che faccia la fatica al posto nostro: ma bisogna imparare a fare noi stessi la fatica di cambiare il metro di spazio del mondo in cui viviamo. Niente progredisce davvero se non progrediscono uno a uno gli individui, a cominciare dalla loro interiorità. E forse è necessario imparare che nessuna fatica è mai risolutiva, che ciò che chiamiamo civiltà non è mai per sempre, che la civiltà è faticosa e costosa e che bisogna farla evolvere di continuo. 

La civiltà è un giardino che fiorisce finché è irrigato e lavorato: basta non curarlo per un tempo brevissimo, e il più bel giardino diventa rapidamente un deserto, e si torna indietro con velocità orribile alle masse in fuga e alla schiavitù e allo sfruttamento di donne e uomini nel nome di un qualsiasi totem sacrificale. Bisogna tornare a fissarle, le fotografie della Storia, e provare a immedesimarci nell’angoscia degli altri che sono noi: non per un presunto e presuntuoso buonismo, no. Ma per restare svegli e lavorare, ognuno come può e come sa, a quella cosa che chiamiamo civiltà: ricordando che il fine sono gli esseri umani e il loro bene, e che i totem sacrificali sono l’orrore.
 

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