Università e territorio restano separati in casa

di Stefano CRISTANTE
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Venerdì 9 Ottobre 2015, 22:18 - Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 10:19
Conosco poche città dove l’ateneo è presente nelle conversazioni quotidiane come a Lecce. A Lecce (e a Brindisi) l’università è sotto osservazione ogni giorno, la stampa ne considera le iniziative e le scelte, i cittadini ne discutono le vicende. Eppure, qualche anno fa (2010) ho pubblicato un libro con altri due colleghi (Valentina Cremonesini e Mariano Longo) dall’eloquente titolo “Separati in casa”, dedicato alla scissione tra la città e l’ateneo. Voglio auto-accusarmi di incoerenza? No. La presenza dell’università nelle conversazioni quotidiane dei leccesi non significa, purtroppo, un’alta integrazione tra città e ateneo. La storia dell’università del Salento (e di Lecce) è già lunga sessant’anni, ma siamo arrivati sfiancati agli ultimi anni accademici: i tagli rovinosi imposti dai governi a partire dal 2008 hanno impedito ogni ragionevole tenuta sul doppio fronte della didattica e della ricerca. Dalle istituzioni locali non è venuto nulla per l’università, né un progetto, né un palazzo, né un’iniziativa. Qualcosa ha fatto la Regione, inventando programmi rivolti all’insieme degli atenei pugliesi, in particolare per agevolare l’inserimento di giovani ricercatori a tempo determinato.


Pur rivendicando a gran voce una relazione strategica tra imprese e università del Salento, le aziende e i loro organi di rappresentanza hanno accettato di buon grado di prendere posto negli organi di governo dell’ateneo, ma non hanno dato mostra di alcuna volontà di investimento strategico.

Quindi, siamo ancora inchiodati a quel titolo: “Separati in casa”. Solo che ora, rispetto al 2010, la situazione si è ulteriormente inasprita. Il numero degli iscritti è calato, seguendo e purtroppo persino andando oltre le brutte tendenze delle iscrizioni nazionali. La popolazione universitaria leccese è ora sotto i 20 mila iscritti.





Per poter mantenere i non esaltanti finanziamenti ministeriali odierni e non ridursi – come ha affermato il rettore Zara – a poter pagare unicamente gli stipendi di docenti e impiegati (ma dovendo rinunciare a tutto il resto) occorre invertire la tendenza. Anche informativa. C’è un’idea della professione universitaria che va sfatata: molti cittadini credono che la nostra categoria percepisca stipendi favolosi. 10 mila, 8 mila, almeno 6 mila euro al mese. Così si vocifera nelle chiacchiere da bar.




Uno come me, assunto 14 anni fa dall’ateneo leccese, percepisce circa 2500 euro netti al mese. Siamo i docenti peggio pagati dell’intera Europa. Da cinque anni abbiamo il blocco degli scatti di anzianità. Siamo rimasti l’unica categoria di dipendenti statali ad aver subito il blocco anche per il 2015 (non si conoscono i motivi). Se non ci faremo sentire, il blocco resterà anche nel 2016. Non stiamo piangendo miseria: personalmente quello che mi dà più fastidio è che si scambi una posizione come la nostra con una situazione di privilegio.





È una normalissima situazione di reddito piccolo-borghese, che diventa proletario quando si affronta il caso dei ricercatori e sotto-proletario quando si arriva ai giovani precari. Però non siamo tutti uguali. Verissimo. C’è chi fa pochissimo, chi il minimo indispensabile, chi molto e chi moltissimo. Ha ovviamente ragione Nando Boero: i docenti vanno valutati. Ciò non significa però che gli attuali metodi di valutazione siano i migliori possibili.




Faccio un altro esempio personale: con i colleghi che ho citato sopra ho curato un volume che si intitola “Il salotto invisibile”, un lavoro durato tre anni per indagare il potere a Lecce. Non solo il libro è andato molto bene, ma se ne è discusso a lungo nei media locali e nazionali. Tuttavia per l’Anvur è come se la ricerca non fosse mai esistita: il libro viene rubricato come “curatela” e la sede editoriale non fa parte di lobby influenti. L’Anvur – l’ente preposto alle valutazioni della ricerca e a molto altro – non solo è costosissimo ma è quotidianamente messo alla berlina da fior di docenti che ne segnalano, attraverso il sito Roars, le arroganze e la prosopopea. È possibile migliorare il modo di valutare?





È possibile consentire una libera circolazione di riviste che rispettino i canoni universali del sapere scientifico senza ridursi a una manciata di eccellentissimi ed esclusivissimi guardiani di un assai probabile conformismo di settore? Come scriveva Forges Davanzati su questo giornale, per l’Anvur contano solo le pubblicazioni sulle cosiddette riviste di fascia A. Si premia il contenitore, non il contenuto.




Se poi aggiungiamo che l’attribuzione di fascia A giunge da commissari che in moltissimi casi hanno pubblicato o pubblicano per quelle riviste la questione si fa patetica. Lasciamo dunque perdere le fasce e concentriamoci su ciò che i docenti scrivono su oneste riviste che rispondano a semplicissimi requisiti: un comitato scientifico nazionale e internazionale, una redazione composta di universitari a tempo pieno, una procedura di valutazione che garantisca l’equanimità, un insieme di riferimenti bibliografici che consentano al valutatore di accertarsi delle fonti degli scritti.

Anche sulla didattica occorre innalzare la qualità senza finire schiavi della discutibilissima ideologia del merito.





Guardiamo agli studenti: personalmente preferirei un’aula attiva e curiosa e di buon livello invece che un’aula abulica con uno o due studente geniali ed eccellentissimi. È la qualità media che va innalzata, non il perseguimento a ogni costo dell’eccellenza. Una didattica profondamente rivista e aggiornata – alcuni parlano di didattica cooperativa – non potrebbe che favorire l’attrazione del nostro ateneo. Infine, torniamo al territorio. Nel burocratese universitario, si chiama “terza missione” (dopo la didattica e la ricerca). Cosa fa l’università per il territorio? Cerca di ascoltarlo e di capirne le esigenze, in modo da proporre una formazione utile e strategica. È ovvio che non si possa cambiare tutto in un anno accademico né assecondare pulsioni le più disparate.





Molti studenti in più si iscriverebbero se “andassimo a regime”, cioè se tutti i docenti dessero un contributo di impegno ai loro organismi di auto-governo (Consigli didattici) e se si utilizzasse una logica di cooperazione guidata e trasparente sia nei corsi esistenti sia per valutare in quali nuovi settori investire. Ma il territorio e le sue istituzioni non possono limitarsi a un chiacchiericcio pettegolo sull’ateneo. Lo stesso rigore e la stessa audacia che si vogliono dall’università devono essere richiesti anche a istituzioni ed aziende. Ci servono progetti e risorse, non pacche sulle spalle.

Stefano Cristante