La menzogna dell'economia basata solo sui profitti

di Stefano CRISTANTE
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Venerdì 25 Settembre 2015, 22:09 - Ultimo aggiornamento: 26 Settembre, 09:45
Funzionava così: sottoposta a test di emissione, una vettura Volkswagen diesel poteva contare su un software che ordinava alla macchina di ridurre drasticamente il rilascio di ossido di azoto. Una volta superata la prova e ritornata su strada, la Volkswagen “ecologica” si trasformava in una piccola fabbrica inquinante: i suoi gas di scarico superavano di 40 volte il limite stabilito dalla legge. Il quotidiano inglese The Guardian ha stimato in decine di migliaia di tonnellate (tra 10.329 e 41.571) l’emissione annuale di ossidi di azoto dovuta alle circa 500.000 Volkswagen diesel circolanti negli Stati Uniti e in centinaia di migliaia di tonnellate (tra 237.161 e 948.691) quella delle 11 milioni di VW diesel che viaggiano nel resto del mondo. Per capire l’entità di queste cifre si può ricordare che l’Istituto Max Planck per la chimica calcola che, a causa dei gas di scarico, nella sola Germania muoiano ogni anno circa 7mila persone. Un’enormità. Qualcosa che stride con gli spot pubblicitari di molte marche automobilistiche: presentate nella loro veste estetica luccicante e seducente, sempre più veloci e scattanti, ora le automobili sono anche ecologiche, partecipi di un nuovo modo di concepire l’ambiente.



L’affaire Volkswagen spinge i cittadini verso un’altra opinione: il potente brand tedesco (che controlla anche i marchi Audi, Skoda e Porsche), sinonimo di efficienza e qualità nell’immaginario collettivo mondiale, ha fondato almeno una parte dei suoi superlativi profitti nell’imbroglio sfacciato della legge e dei consumatori, producendo autovetture magari luccicanti e seducenti e veloci e scattanti, ma fetide e inquinanti come una conceria di fine ottocento.

Molte sono le osservazioni che possono scaturire da questa pessima storia. Una riguarda la storia del colosso tedesco e della sua narrazione: con la truffa del diesel si interrompe drasticamente una sorta di favola che aveva visto uscire il magnifico Maggiolino dalle fabbriche di Hannover dopo che Hitler, negli anni ’30, aveva imposto una “macchina del popolo” al sistema produttivo tedesco troppo a ridosso dell’inizio della seconda guerra mondiale.



La VW era stata perciò dirottata dalla produzione civile a quella bellica. Solo nel dopoguerra, grazie agli sforzi congiunti dell’imprenditore-designer Ferdinand Anton Porsche e del manager Heinz Nordhoff, il Maggiolino divenne una delle più amate e diffuse automobili di tutti i tempi. Che resta ora di quell’antica fama? Si era creata, nel corso del tempo, una relazione metonimica tra VW e Germania. Volkswagen era uno dei modi per dire Germania. Gli stereotipi ci raccontano di un paese e di un’azienda nati per essere efficienti. Ma dov’è esattamente l’efficienza in questa storia? Certo, i profitti negli ultimi anni si sono calcolati in miliardi di euro. Il colosso automobilistico è stato assai efficiente nell’imbrogliare le tecniche di misurazione anti-inquinamento americane. In questo caso l’efficienza è stata perciò di tipo criminale, dovuta a una manipolazione tecnologica.



Un’altra osservazione, ed è forse quella centrale, riguarda gli scopi produttivi di una mega-azienda e il loro intreccio con la comunicazione pubblica. Qual è lo scopo di un’azienda che impiega migliaia e migliaia di dipendenti e che produce un bene economico diffuso in tutto il mondo? Se la risposta è il profitto a ogni costo, gli investimenti pubblicitari non potranno che rivelarsi ingannevoli e proporre al consumatore una gigantesca alterazione della realtà. Ma: non siamo forse stati inondati negli ultimi decenni da manuali e scritti di ogni forma e dimensione sulla “responsabilità sociale dell’azienda”? Sul fatto che un’azienda ha un’etica, e che quest’etica si trasferisce sulla custodia del cittadino-consumatore, proteggendolo da scelte avventurose e sbagliate? Si è costruito un edificio narrativo sulla potenziale armonia tra aziende e società, che la truffa del diesel ha fatto crollare in un attimo. Perché la VW non era un’azienda come tutte le altre, era l’azienda tedesca per antonomasia. Conviene dirsi ancora due cose, dopo la spiazzante tabula rasa indotta dallo smascheramento della truffa. La prima è che la globalizzazione inasprisce la concorrenza, fino a scontri e combattimenti che assomigliano più a guerre che a competizioni. È solo nella cornice della globalizzazione che si può capire la truffa della VW.



Ideare un software per far passare ai controlli le proprie auto ha significato per l’azienda risparmiare sul filtraggio delle sostanze inquinanti e dunque poter vendere a un prezzo più basso della concorrenza i propri modelli diesel. Non sappiamo ancora quanto la truffa sia stata replicata nel mercato europeo, dove i controlli dei test sono assai più blandi che negli Stati Uniti. La sola idea mette i brividi. La seconda cosa da dire è che il capitalismo dell’epoca della globalizzazione è stato decantato come un sistema dove la qualità sarebbe scaturita “matematicamente” dal confronto tra modelli produttivi. Avrebbe vinto il migliore, in ogni caso. Il diesel-gate dimostra che quest’idea va rivista. Se persino colossi come la VW progettano truffe come una qualsiasi banda criminale vuol dire che la psicologia dominante per affrontare il sistema è “vincere a ogni costo”. La menzogna, in certe particolari contingenze di mercato, può essere l’utile alleato di una tecnologia che può essere piegata alla manipolazione. Se questa analisi è corretta, non si può che trarne la conseguenza che avere a che fare con comportamenti illegali potrebbe non essere l’eccezione, ma la norma.



Oggi l’attenzione dei media è tutta puntata sui manager della Volkswagen e sui loro duelli interni per la leadership, ma la verità è che una truffa così colossale assai difficilmente può essere stata perpetrata nell’ignoranza dei vertici aziendali. Non prendiamoci in giro. La manipolazione dei test non è stata fatta da una start-up a inizio percorso, ma da uno dei marchi automobilistici più potenti al mondo. Il principio di lealtà viene applicato in modo quasi automatico dai cittadini nei confronti di imprese che dominano il mercato, perché si è raccontato per anni che le grandi imprese operano non solo per il profitto, ma per rendere migliore la vita degli esseri umani. Non sempre, evidentemente, è così. La reazione non potrà che essere anche “politica”, perché quando vengono alla luce truffe e scandali come questo si incrina la fiducia globale nei confronti del “potere”, che finisce per rappresentare tutto ciò che sovrasta il cittadino, e rispetto al quale ci sentiamo tutti impotenti. Che tutto ciò possa avere un effetto “anti-politico” non deve perciò stupire nessuno, tantomeno coloro che negli ultimi decenni hanno descritto il capitalismo globale come un sistema avanzato e nuovissimo, mentre noi facciamo i conti con il sistema più antico del mondo per alterare la realtà: la menzogna.

Stefano Cristante