Se riparte l'Italia riparte il Sud: uno slogan da rovesciare

di Adelmo Gaetani
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Venerdì 8 Gennaio 2016, 10:53
Almeno per un momento, proviamo a mettere da parte gufi, civette, avvoltoi, volpi e leoni, proviamo, insomma, a chiudere lo zoo in cui preferisce rifugiarsi la politica quando ha poco o niente da dire o quando decide di addentrarsi in una scorciatoia per aggirare la complessità e la durezza dei problemi reali che scorrono sotto gli occhi di tutti. Il quadro geopolitico internazionale suscita particolari preoccupazioni, e non solo per le fibrillazioni dell’economia cinese e le sue ripercussioni globali.

Il quadro geopolitico internazionale suscita particolari preoccupazioni, e non solo per le fibrillazioni dell’economia cinese e le sue ripercussioni globali. L’incendio che va divampando tra Arabia Saudita ed Iran, la minacciosa presenza dell’Isis sullo scenario mediorientale, lo scontro tra Nato (Usa, Europa e Turchia) con la Russia di Putin, allineano sullo stesso piano e nello stesso momento storico elementi di una crisi profonda che mina la stabilità di un mondo privo di una leadership autorevole e credibile.

In un contesto così complicato e dagli esiti imprevedibili, l’Europa conferma la sua pochezza politica, la sua incapacità di giocare un ruolo incisivo, se non decisivo, per cercare di disinnescare le mine vaganti di una crisi globale che genera paura, insicurezza e che potrebbe finire col riproporre, a sei anni di distanza, un nuovo e incontrollabile collasso dell’economia. È la stessa Europa, a rigida e miope guida tedesca, che, sino alla salutare svolta “tecnicista” segnata dall’intervento della Bce guidata da Mario Draghi, preferiva imporre massicce terapie a base di sacrifici ai Paesi più esposti alla crisi e divorati dalla recessione, piuttosto che mettere in campo una strategia di crescita che avesse il suo punto di forza nel principio di solidarietà e di perseguimento del bene comune.

Il repentino aggravamento del quadro geopolitico trova l’Europa debole politicamente e ancora fragile, in molte sue parti, dal punto di vista economico.
Una situazione che si riverbera sull’Italia ancora gravata, secondo gli ultimi dati Eurostat, da tassi di crescita e occupazionali più bassi rispetto agli altri Paesi dell’Unione. Il +0,8 con cui il Pil chiuderà il 2015 è il segnale che qualcosa inizia a muoversi, ma non può bastare, sia perché non è equamente distribuito sul territorio nazionale (il Mezzogiorno avrà una crescita uguale a zero e un livello di disoccupazione superiore al 20%) e soprattutto perché le crescenti tensioni internazionali, con l’instabilità che ne consegue e il possibile rallentamento dell’economia globale, mettono a rischio le previsioni per il 2016 che indicano un aumento del Pil dell’1,6 per cento.

Nel suo discorso di fine anno, il presidente della Repubblica Mattarella, con sano e saggio realismo, non ha mancato di ricordare gli elementi di criticità con cui il nostro Paese è chiamato a fare i conti (Sud, lavoro, giovani). Da parte sua il premier Renzi preferisce mobilitare l’opinione pubblica con un discorso improntato all’ottimismo e alla fiducia nel futuro dell’Italia che può correre e può vincere, come la Ferrari. Ma, al di là del valore simbolico del messaggio e della buona volontà, restano le incognite legate ad una politica economica, confermata dalla Legge di stabilità appena approvata dal Parlamento, che non coglie appieno e, quindi, non prova a risolvere le contraddizioni di un Paese spaccato tra un Nord che cammina e un Sud che quando non arretra, resta al palo delle sue arretratezze.

Un Paese siffatto non può essere competitivo e, comunque, non sarebbe in grado di fronteggiare con la dovuta energia e la necessaria coesione i contraccolpi di una crisi internazionale che, allo stato dei fatti, non può non essere messa in conto.
“Se riparte l’Italia, riparte il Mezzogiorno”, ha detto recentemente Renzi. Sono parole che possono apparire logiche e di buonsenso, ma sulle quali è lecito avanzare qualche osservazione di metodo e di sostanza. In realtà, solo la ripartenza del Mezzogiorno può assicurare al sistema-Paese quella spinta necessaria per portare la crescita del Pil a superare quota 2%, soglia oltre la quale si mette in moto il mercato del lavoro e si risponde utilmente alla crisi sociale che devasta le nuove generazioni e genera crescenti povertà.

Assumere la questione meridionale come la principale e indifferibile questione nazionale: è questo il salto di qualità che la politica, la cultura e la società nel suo insieme devono compiere. Non per un obbligo morale nei confronti della parte più debole e bisognosa del Paese, ma per una intelligente valutazione dell’interesse comune a perseguire uno sviluppo integrato e diffuso. Per questa via, va concretizzato un piano di modernizzazione dell’economia italiana costruito sulla valorizzazione del fattore umano, unico modo per accrescere gli elementi di competitività sul terreno dell’innovazione tecnologica e della ricerca applicata, essendo ormai in via di esaurimento gli spazi vitali per poter puntare sulle produzioni manifatturiere a basso valore aggiunto già traslocate in Cina o in altre zone in via di sviluppo.

Non è questione di gufi, civette, avvoltoi, ma di visione rispetto alla crescita di un Paese che deve trovare al suo interno la forza per cambiare e proporsi agli occhi di un mondo, pure frastornato da tensioni e minacce, come un esempio virtuoso del superamento di vecchie divisioni e radicate incomprensioni. La sfida del presente e del futuro, per l’Italia, è soprattutto quella di unire e fare massa critica tra ciò che ancora oggi è diviso.