L'arte di insultare nell'antico Salento

L'arte di insultare nell'antico Salento
di Claudia PRESICCE
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Sabato 23 Dicembre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 20 Gennaio, 21:43

Si vanno perdendo. E, in alcuni casi, qualcuno ne sarà pure contento. Non sono infatti sempre appellativi edificanti, e anzi al di là delle argute ironie, talvolta sono proprio parole volgari (e non solo nel vero senso della parola). Tuttavia raccontano una storia, lunga, antica, di una lingua acuta prima che tagliente, depositaria di narrazioni sedimentate nel tempo che spesso, in fondo, rivelavano l’aroma di intense relazioni umane basate sull’osservazione e quindi sulla conoscenza profonda dei propri vicini. Conoscenza ormai desueta. 

I termini


Ma spieghiamo meglio... La geografia salentina che rimanda a pianure, serre, costiere e territori popolati di borghi e cittadine varie, è sempre stata animata da una sorta di topografia “altra”, dove i nomi ufficiali custoditi da carte o mappe (oggi Google Maps o navigatori vari) sono stati accompagnati da una versione dialettale, per lo più nota solo localmente. E non solo della cittadina, quanto soprattutto dei suoi abitanti definiti con soprannomi riconducibili raramente alle proprie virtù. Qualche esempio? Riportiamo fedelmente (non ce ne vogliano): a Castrignano dei Greci sarebbero “lardùsi”, a Novoli “facce te quatàri”, a Gallipoli e Surano “ciucci”, a Cannole “cuzzari”, a Spongano “pacci lunatici”, ad Alezio “picciuttari”, a Caprarica “crape” ecc ecc. Parte da qui Rossella Barletta nel suo “Insultario salentino. Viaggio tra i soprannomi popolari” (Edizioni Grifo; 15 euro; 176 pagine) una mappatura “seria” di maldicenze, epiteti o soprannomi popolari che dir si voglia, racchiusa tra pagine farcite di storia e tradizione folklorica, racconti tramandati e dicerie diventate leggenda. È il risultato di una ricerca della studiosa appassionata di storia leccese e salentina, autrice di numerose pubblicazioni, che l’ha portata, come lei spiega, a scoprire “una sorta di radiografia del carattere dei nostri antenati, mettendo a nudo la loro dabbenaggine e, nel contempo, il modo di curiosare e di rapportarsi, a volte ingenuo, a volte cinico, caustico, coi propri vicini o confinanti”. 

Le origini


Non è solo una caratteristica salentina ovviamente, anche perché questo vezzo irresistibile di motteggiarsi tra paesi vicini pare abbia origini antichissime: «si fa risalire al tempo dell’antica Grecia per il fatto che questa era divisa in città-stato fra loro rivali. Poi continuò con i Romani che, pur avendo unificato la Penisola e creato perfino un impero, non riuscirono a cancellare la citata consuetudine» spiega Barletta. Nella storia è rimasta una costante quella di rivaleggiare tra città e paesi dello stesso ambito regionale, anche per motivi commerciali, per gelosie, per ambizioni calpestate. Autori di motti e dileggi sono stati governanti, combattenti, poeti, varie forme di trascinatori di popoli. In queste pagine la studiosa ha riunito i vari dileggi dedicati ad ogni comune della sconfinata provincia leccese, dividendo il territorio per macro aree che raccolgono vari paesi con il loro nome anche in dialetto: Terre dei Messapi, Valle della Cupa, Grecìa Salentina, Serre Salentine, Borghi d’incanto e Capo di Leuca. Ha così ricordato che ci sono soprannomi comuni a molti luoghi diversi, ma con spiegazioni differenti legate a curiose tipicità, cercando una contestualizzazione intuitiva con tradizioni, antichi mestieri, abitudini di quello o l’altro borgo.

Tornando a qualche esempio, gli abitanti di Castrignano dei Greci sarebbero “lardùsi” perché gli ambulanti che portavano in giro le loro mercanzie pare usassero vantarle esageratamente. Il termine infatti deriva da “menare lardi” cioè l’atto del gradasso di ostentare. A Campi Salentina invece i campioti spesso definiti “mauri” per la carnagione scura, sono più noti come “babbi”. E la storia qui è lunga e riporta al campanile della chiesa matrice spesso ricostruito, in particolare quasi distrutto nel 1792 da un fulmine. «I soliti burloni diffusero la diceria che non fu il fulmine a colpire la sommità del campanile, ma l’incauto intervento di un asino issato dai campioti perché eliminasse le piante cresciute spontaneamente lungo le pareti – scrive Barletta – tanto l’asino prese gusto a brucarle da non accorgersi di intaccare il campanile». I cittadini dunque da allora furono “babbi” perché non si resero conto del danno che da soli stavano causando al loro principale monumento. Pure tanti epiteti riguardano anche presunte caratteristiche fisiche di certi paesani, ma i più divertenti sono ovviamente quelli che indicano un’indole, colgono atteggiamenti, strane consuetudini di una località. E nessuno si senta esonerato, nessuno. Ultimo esempio: come sono soprannominati i leccesi? Allora “scorcia cani”, “sona campane” e poi, il gustoso, “cciti petucchi”. Andranno lette le definizioni e le storie accurate tra le pagine del libro, ma vale la pena ricordare che se quest’ultima, in italiano “un uccidi pidocchi”, indica “persone noiosamente petulanti, seccatrici, insistenti”, il “suona campane” è colui che non fa altro che sparlare degli altri e diffondere maldicenze. Meditiamo, dunque, in queste feste.

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