Eugenio Barba si racconta: «Io migrante del Sud salvato dal teatro»

Eugenio Barba si racconta: «Io migrante del Sud salvato dal teatro»
di Giorgia SALICANDRO
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Venerdì 19 Novembre 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 11:59

«L’esperienza della migrazione mi ha portato verso il teatro». Il teatro come strumento di dialogo tra comunità, luogo di prossimità al di là delle differenze linguistiche, forza catalizzatrice di una nuova umanità: quel “fare teatro” dell’Odin Teatret nasce, anche, fuori dal palcoscenico, lungo la strada che porta il suo fondatore Eugenio Barba dal Salento, dove è nato, fino a un Nord Europa allo stesso tempo desiderato e subìto. Un percorso difficile, da cui traggono linfa i princìpi fondanti della compagnia. Di questi valori è intriso anche “L’albero”, lo spettacolo che va in scena alle 20.45 ai Cantieri Koreja di Lecce nell’ambito della settimana dedicata all’Odin Teatret. L’opera, terza tappa della “trilogia degli innocenti”, attraversa la storia contemporanea falcidiata da conflitti e crisi umanitarie. Al centro del palco la desolata immagine di un albero secco dal quale anche gli uccelli sono fuggiti. «Con il nostro lavoro seminiamo sull’acqua – commenta Barba - sperando che qualche seme arrivi alla terraferma».
Un documentario a lei dedicato, proiettato negli scorsi giorni a Koreja, si intitola “Who is Eugenio Barba?”. Porgo questa domanda a lei: chi è Eugenio Barba?

«È qualcuno che è rimasto molto infantile, ha sempre la testa un po’ altrove, però deve anche mangiare per cui si inventa mille modi per riempire lo stomaco. Decisivo per me è stato lasciare l’Italia a diciotto anni, perché ero innamorato di una ragazza. Né la mia né la sua famiglia volevano che vivessimo insieme: ce ne andammo in Norvegia. Lì provai l’esperienza della “stupidità”: cominciai a lavorare come operaio ma almeno per il primo anno ho vissuto in questo mondo incomprensibile di suoni, considerato dagli altri come uno stupido, dato che se mi chiedevano di passargli un bicchiere io prendevo un piatto… L’esperienza della migrazione ti fa conoscere la grande generosità degli esseri umani che ti accolgono, ma anche il razzismo, e ce n’era molto verso gli italiani negli anni Cinquanta in Scandinavia. Questo mi ha profondamente segnato, e in fondo ha contribuito a portarmi verso il teatro». 
In che modo?
«Per nascondere la mia “identità etnica” ho pensato di mettermi la maschera dell’artista. Del resto, anche l’ambiente teatrale non mi ha subito accolto. Ho studiato in Polonia, ho lasciato la scuola dopo un anno per dedicarmi a diffondere la conoscenza su un giovane regista che si chiamava Jerzy Grotowski, allora sconosciuto, fino a quando mi hanno sbattuto fuori dalla Polonia che allora era un Paese socialista con un regime molto severo verso gli artisti. Quando sono tornato in Norvegia ho cominciato con un gruppo di giovani rifiutati alla scuola teatrale. Poi c’è stata la straordinaria coincidenza di una tournée in Danimarca e di un sindaco di una cittadina di circa 15mila abitanti, Holtebro, che ci ha proposto di rimanere da loro, pur essendo stranieri e non parlando la lingua del posto. È da lì che comincia il mio percorso. Eugenio Barba è uno che ha vissuto questo tipo di avventure cercando di sopravvivere, mantenendo una sorta di libertà interiore».
Nella storia dell’Odin l’incontro diretto con le persone, a cui si lega anche la pratica del baratto culturale, è fondamentale. Come avete vissuto il tempo della pandemia e del distanziamento sociale?
«Ognuno di noi lo ha vissuto in modo molto diverso. Per me è stato un periodo proficuo, di grande cambiamento mentale. Nel bel mezzo della pandemia un caro amico mi ha chiesto di rivolgermi alle persone per le quali potevo essere un punto di riferimento, ho accettato, ne è nato il progetto “Terzo teatro, un grido di battaglia” sulla cultura del teatro in Europa. Sono rimasto stupito da quanti mi hanno raggiunto virtualmente da ogni parte del mondo, molti dei quali non erano mai potuti venire ai nostri spettacoli, per ragioni geografiche. Questo mi ha fatto ripensare a come si può trasmettere il nostro mestiere, che certamente impari solo “incorporandolo”, ma è anche possibile creare delle alternative». 
Anche da questo parte il progetto di un archivio dell’Odin Teatret a Lecce?
«Ne parleremo nell’incontro di oggi. Si chiamerà “Archivio vivente isole galleggianti”, saranno tre sale del Convitto Palmieri che il Polo bibliomuseale di Lecce dedicherà a me e al lavoro dell’Odin Teatret, declinate in tre aspetti: la mia biografia, quella dell’Odin e quella della cultura del teatro di gruppo alla quale noi sentiamo di appartenere. Sarà un “archivio vivente” nel senso che è pensato non solo per racchiudere materiali e documenti, ma come una grande installazione artistica permanente, qualcosa di totalmente innovativo che prova a creare un equivalente artistico visivo dell’esperienza teatrale. Accoglierà anche filmati didattici a libero accesso, che tutti possano scaricare, realizzati ad hoc. Il progetto nasce in collaborazione con la fondazione Barba Varley, a cui ho dato vita insieme alla mia storica attrice Julia Varley. Dovrebbe partire a breve, entro i prossimi sei mesi». 
Significa che sta pensando di riavvicinarsi al Salento in modo più costante?
«Più che al Salento, mi riavvicino a persone con cui mi sono trovato bene nel corso di tanti anni, come faccio già con Koreja. Non è tanto il Salento di per sé a richiamarmi, perché ammetto che è così cambiato da quella che era la terra della mia infanzia che non lo riconosco, in questo nuovo Salento vedo un paesaggio molto triste, distrutto dalla Xylella, ma anche un’invasione di turismo che per carità, è anche pieno di vita ma non ha nulla a che vedere con le mie radici».
“L’albero”, che va in scena questa sera, racconta la battaglia tra il principio di umanità e la disumanità della violenza. Per chi pianterebbe, oggi, l’albero?
«Dedicherei lo spettacolo a tutti quelli che si battono, che non sono passivi, che scendono in strada per difendere valori e diritti, alle donne afghane, a quelle che denunciano i femminicidi alla frontiera tra Messico a Stati Uniti... Ma tutto questo in fondo ha poca importanza: la mia dedica non può cambiare niente della loro condizione. Quello che io posso fare è avere un’influenza su quelle 10-15 persone che lavorano con me facendo in modo che loro scoprano il massimo delle loro possibilità, e se riusciamo a canalizzare tutto ciò in uno spettacolo che crea relazioni tra spettatori, so che ho “seminato sull’acqua”: solo l’acqua decide dove il seme andrà, se nel ventre di una balena, su una spiaggia deserta o su un pezzo di terra che farà crescere un albero. Non bisogna contare sui risultati: quello che è importante è un’etica del lavoro ben fatto. L’ho imparato quando facevo il saldatore».
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